il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2025
Giro d’Italia ciclismo anni ‘70 bici e amarcord
Quando andavo in bici io, anni 60 e dintorni, il ciclista era la vittima designata. Perché la bici non era riconosciuta come un vero mezzo di trasporto. Bisognava arrangiarsi con le alzaie che costeggiano il Naviglio Grande e quello Pavese. Una volta forai ed era un bel pasticcio perché con le mani non so fare assolutamente nulla, mani “gronchie”, rattrappite, come diceva il mi babbo. Alla notoria “sfiga finiana” mi venne in soccorso una contro sfiga: avevo forato proprio davanti ad un negozio di biciclette. Oggi a Milano, di negozi di bici, se ne vedono pochi.
Se avevo gamba mi spingevo, insieme alla mia ragazza, fino a Vigevano, dove avevo il doppio piacere di mangiare un gelato (allora non ero ancora un alcolista) e di veder lei leccare un cono. Per parecchio tempo queste gite in bici le ho fatte con mio figlio Matteo. Siccome a un certo punto, molto prima di Vigevano, l’Alzaia diventa una vera strada e le auto corrono sfiorandoti, mi mettevo un po’ dietro di lui, più verso il centro, per proteggerlo. Ma un giorno, lo stronzetto mi disse: “Papà, non vengo più”. “Perché?”. “Perché vai troppo piano”.
La bici è un mezzo di trasporto meraviglioso, perché basandosi sul principio della leva, per mandarla avanti ci vuole solo la forza dell’uomo. Non inquina. Ed è ecosostenibile. Dopo anni di incuria in cui era stata relegata nei garage a fianco delle Harley Davidson e degli arroganti macchinoni, in genere americani, ebbe un ritorno di fiamma durante la crisi del petrolio del 1973.
I ciclisti professionisti sono degli autentici acrobati. Una volta, il belga Bruyneel, scendendo a pazza andatura dal Tourmalet, volò fuori strada. Un urlo si levò dagli spettatori, sia quelli che erano sul percorso sia quelli che, come me, seguivano la corsa in tv. Poi si vide che Bruyneel si era aggrappato a un albero. Ridiscese e continuò la corsa, come se nulla fosse. È quella discesa che costò la carriera e in definitiva anche la vita a Roger Rivière. Ma anche nel gruppo bisogna stare attenti, bisogna “limare” per non andare a sbattere con quello che ti sta a fianco o dietro o davanti, causando cadute rovinose, soprattutto in volata quando gli sprinter spingono al massimo. Eppure in gruppo bisogna stare perché il vento se lo prende quello davanti.
Storia a sé fanno le corse a cronometro. Si corre da soli. Non si tratta di andare a tutta dalla partenza all’arrivo, ma di regolare i tempi, quando si deve spingere e quando no. Gli svizzeri, sarà un caso, da Rolf Graf ad Alex Zülle, sono sempre stati dei grandi cronomen. E io mi stupivo, un po’ ingenuamente, che un ciclista che andava più forte di tutti in mezzo al gruppo fosse una pippa. Zülle non ha mai vinto né un tour né un giro anche per sfortuna, perché una prima volta si trovò a competere con l’americano Armstrong drogato fino al midollo (vincerà sette Tour, tutti annullati) e poi con Pantani al rientro dopo una squalifica per droga. Memorabile resta però la crono di Trieste del Giro del 1998, dove superò Pantani, che era partito prima, come una motocicletta: 40 km su strada alla media di 53,77 è un’impresa tuttora insuperata.
Zülle era fortemente miope, anche per questo mi identificavo in lui, e doveva portare gli occhiali. I problemi venivano quando pioveva. Nel crono-mondiale del 1996 a Lugano, Zülle, svizzero, che oltretutto correva in casa, era il grande favorito. Ma a Lugano pioveva a dirotto e lui dovette correre senza occhiali come facevano tutti gli altri. Quando partì il cronista ebbe un’espressione dispregiativa, come dire che era spacciato. L’ho visto scendere dal Monte Ceneri che faceva le curve quadre a una velocità pazzesca. Eppure vinse. Al traguardo, Alex, un ragazzo tranquillo, si mise a piangere. Aveva capito di aver fatto una grande impresa. Il giorno dopo comprai la Gazzetta dello Sport: una cronaca arida che non dava conto dell’impresa. Perché oggi che pur, coi mezzi che ci sono, puoi vedere tutto fin nei minimi dettagli, sia nel ciclismo che nel calcio, i cronisti non sanno più raccontare, non sanno più restituire l’épos di un’impresa.
Com’ero io da ciclista? Premesso che non ho mai fatto corse, nemmeno da dilettante, ero passabile in pianura, disastroso in salita, e questo è strano perché ho sempre avuto un fisico leggero, ma fortissimo in discesa perché venivo giù a velocità altissima anche se facevo le curve quadre, come Zulle.
Oggi la bici normale non esiste quasi più, ci sono le e-bike, elettriche (anche i monopattini sono diventati elettrici). Il principio che ha fatto la fortuna della bici, cioè di basarsi solo sulla forza umana, bici, che nel tempo ha avuto grandi trasformazioni, da quella col ruotone dietro, “Penny- Farthing” del 1870, alle attuali bici da corsa, che per disposizione dell’Uci non possono superare i 7,8 chili, si potrebbe scendere ancora più in basso, ma sarebbe troppo pericoloso per i ciclisti.
A Milano, città quasi totalmente piatta, come Amsterdam, le piste ciclabili avrebbero potuto essere introdotte un secolo fa. Oggi costituiscono un imbuto per gli automobilisti, ne sanno qualcosa i tassisti. A Milano il traffico è diventato un pericolo per i ciclisti e impossibile per gli automobilisti. Non c’è nessun bisogno di bici elettriche. Diversa è la situazione di Roma con i suoi mitici ‘Sette Colli’. Di piste ciclabili neanche a parlarne. Inoltre sotto il piano stradale ci sono infiniti reperti archeologici dell’antica Roma, il che rende molto difficile introdurre delle metropolitane (Roma ne ha solo tre). E poi c’è quasi sempre qualche visita di un capo di Stato straniero e il nostro stesso Presidente della Repubblica è un ingombro con la sua sola presenza. Per cui il traffico caotico di Roma è, almeno in parte, giustificabile. Quello di Milano no.