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 2025  ottobre 17 Venerdì calendario

Cardinali “Ci fermiamo ma il mio Vernacoliere piaceva pure a Berlusconi”

Una città in lutto. Mario Cardinali ieri mattina ha scritto su Facebook che quello di novembre sarà l’ultimo numero del Vernacoliere. Il mensile più sfrontato e ribaldo d’Italia, portatore di locandine mitologiche esposte non solo in Toscana, ma davanti alle edicole di tutte le grandi città italiane, sospende le pubblicazioni. Potrebbe chiudere dopo 43 anni di battute e lazzi di ogni tipo, quasi sempre generati dall’uso dei vari modi di definire gli organi sessuali che hanno da queste parti. Livorno si dispera e Cardinali, nella sua casa di Montenero, da dove osserva la città dall’alto, è quasi stupito dalle reazioni di affetto: messaggi, telefonate, offerte di aiuto, sindaco e presidente di Regione che chiedono appuntamenti.
Perché si ferma?
“Il mercato è cambiato. La società è in declino, non legge più. I social hanno ammazzato il dibattito, non permettono le riflessioni. Le edicole chiudono a centinaia. Reggono i siti e noi dovremo decidere se andare avanti solo online”.
Lei ha 88 anni, l’età pesa nella decisione?
“La mia stanchezza passa in second’ordine. Tanto penso che solo nella bara mi lasceranno riposare. Mi ha chiamato mio nipote, figlio di mio fratello scomparso tre anni fa e mio unico socio, e si è messo a piangere al telefono: «È stata un’esperienza bellissima», mi ha detto. E mi ha colpito, come i tanti messaggi che sto ricevendo. Ma fare un numero costa 6-10 mila euro, soldi che non sempre rientrano”.
Il mensile può andare avanti senza di lei?
“Non è un giornale qualunque. Qualcuno ha detto che Mario Cardinali è il Vernacoliere, il Vernacoliere è Mario Cardinali. Per dirigere questa pubblicazione bisogna aver la voglia di sbeffeggiare il potere, ma non tanto per farlo, bensì come forma di critica sociale”.
Lei come è arrivato al giornalismo?
“Mi sono laureato in Scienze politiche, prima ho fatto l’agente di pubblicità a Livorno e La Spezia, poi alla fine degli anni Sessanta ho aperto un giornalino di notiziole con degli amici. Nel ’61 è nato “Livornocronaca”, settimanale di vita cittadina. Da quella pubblicazione, nell’82, è germinato il Vernacoliere”.
Quando è esplosa la notorietà?
“Nell’82 con Wojtyla allo stabilimento Solvay di Livorno. In copertina gli facemmo dire: “Cari fratelli, anch’io ho lavorato in fabbrica”. E una voce fuoricampo: “Dé, ma hai anche smesso”. Ma il problema fu la locandina. Scrivemmo: “Boia, ‘r Papa a Livorno”. Ci furono grandi polemiche, non si capiva che “boia”, in livornese, è un’esclamazione, e non era riferito al Papa. Da allora siamo cresciuti. Negli anni hanno iniziato a leggere anche fuori da Livorno, magari grazie al passaparola dei turisti estivi o dei militari. Tanti giovani trovavano la libertà sotto l’usbergo della toscanità”.
Quanto siete arrivati a vendere?
“Anche 40 mila copie al mese, con abbonati in tutto il mondo, alcuni ci sono anche adesso che stampiamo 10 mila copie. Il numero che ha venduto di più, 65 mila copie, è stato quello su “Mani Pulite” nel maggio 1992, titolammo: “Come Di Pietro: Operazione culo sudicio”,
riferito alle deiezioni dei bagnanti”.
Non avete pubblicità e contributi statali. Vivete sulle vendite, hanno mai provato a comprarvi?
“Sì Berlusconi. Alcuni anni fa venne il direttore generale della Mondadori da Milano. Mi chiese i diritti dell’agenda del Vernacoliere, che stavamo pubblicando. Aveva il progetto di stamparne migliaia e migliaia di copie. Il manager mi dette un assegno in bianco, da riempire come volevo. E io gli dissi: allora lei non ha capito niente, la mia libertà non è in vendita. Diventò bianco e in cinque minuti se ne andò”.

Il successo si basa sulla lingua livornese, perché è così universale?
“Per la mia città la lingua è una filosofia. A Livorno un concetto si esprime sempre per motti. Tipo “più che morir non si pole”. Il livornese è a-toscano, in mezzo a tantissimi toscani veri. Gli altri hanno puppato latte da Guelfi e Ghibellini. Il livornese nasce quando Ferdinando de’ Medici pubblica le “Leggi livornine” alla fine del Cinquecento. Volevano fondare la città e così invitarono chiunque, basta che non avessero commesso regicidio o battuto moneta falsa. Sono arrivati anche gli ebrei sefarditi dalla Spagna e qui non abbiamo mai avuto il ghetto. Un cacciucco di etnie. E essendo quasi tutti uomini soli, la sera avevano bisogno di compagnia, e arrivarono le “donnette di cianca larga”, dove cianca sta per gamba. Un’espressione bellissima. Per questo l’espressione “figli di p.” qui ha un altro valore. Me lo ricordò il presidente di Utet alla presentazione di un libro”.
Una mentalità diversa.
“Questa gens, questo popolo nato dalla commistione delle etnie più varie, era completamente diverso dal vero toscano, che aveva servito padroni o era stato padrone. Il livornese no, ha questa mentalità libertaria, non tanto anarcoide, se ne frega proprio delle regole. Se entra in ambulatorio medico e c’è scritto “vietato sputare in terra”, ha difficoltà a non farlo. E accanto, per assurdo, Livorno si è trovata una città accademica come Pisa. Diciamo che nel livornese manca la voglia di conoscere, è molto superficiale. Carnascialesco. Trova realizzazione nei piaceri carnali, far l’amore e mangiare”.
Quanto tempo ci mette a fare una locandina?
“A volte è immediata, a volte il lavoro è tanto. Di solito non le creo molto prima della chiusura, perché altrimenti nel frattempo mi vengono a noia”.
Le vostre frecciate colpiscono da tutte le parti. Ma sembra comunque esserci una matrice di sinistra nel vostro lavoro. Come sono i rapporti con quella parte politica?
“Non ne ho mai avuti. In un certo senso mi sdegnano, perché sono sempre stato fuori da associazioni e organizzazioni varie, partitiche, religiose o militari. Non mi sono mai appartenuto ad alcun circolo. Voglio la mia libertà. Però la sinistra oltre i guai che ha fatto non ne può fare altri, la destra invece può farne ancora”