la Repubblica, 16 ottobre 2025
I 60 anni di Bandiera gialla. Renzo Arbore: “Così lanciammo Battisti e il beat”
Le minigonne, i capelli lunghi, la sfida tra i Beatles e i Rolling Stones, la scoperta dei nuovi talenti, l’invenzione dei giovani, il beat che conquista gli studenti: il 16 settembre di 60 anni fa andava in onda la prima puntata di Bandiera gialla, programma radiofonico cult della Rai all’epoca guidata da Ettore Bernabei. In studio una coppia di amici scatenati, Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Tra i ragazzi che affollavano gli studi di Via Asiago, nel 1965, c’erano Loredana Bertè, Mia Martini, Renato Zero, Giancarlo Magalli, Barbara Palombelli, Clemente Mimun, Mita Medici, Valeria Ciangottini, Roberto D’Agostino. «Ci siamo divertiti tanto», racconta Arbore, che continua ad avere una passione per il suo primo grande amore, la radio. Luca Barbarossa e Ema Stokholma il 17 ottobre renderanno omaggio all’evento con una puntata speciale di Radio2 social club, alle 10.30, in cui sarà ospite Arbore (l’appuntamento sarà replicato in tv il 20 ottobre su Rai2 alle 8.40).
Arbore, sono passati 60 anni: che ha significato “Bandiera gialla”?
«Sessanta anni fa eravamo insieme io, Gianni e il regista Massimo Ventriglia. Non avrei mai creduto che avrei festeggiato la prima puntata della trasmissione».
Cosa aveva di speciale?
«Tutto. Era rivoluzionaria, avevamo inventato il movimento beat e Gianni era la prima voce totalmente libera della radio: non era quella di un annunciatore. Ne parlerò da Barbarossa, che fa un programma delizioso, insieme a Dario Salvatori che è uno storico della radio e della musica».
In Rai, all’epoca, la direzione della radio era affidata al maestro Giulio Razzi, poi arrivò Leone Piccioni, ma determinante per voi fu Luciano Rispoli, che per superare le diffidenze propose di chiamare il programma “Bandiera gialla”.
«Per il titolo sì, il merito fu di Luciano, ci rese liberi. Ma per noi in quegli anni fu determinante anche Maurizio Riganti, che è un grande amico, ha 92 anni e continuiamo ad andare a pranzo insieme».
La bandiera gialla è quella che si mette sulle navi per segnalare che ci sono gli appestati. Così hanno via libera: oggi, simbolicamente, dove metterebbe questa bandiera?
«Su una trasmissione elegante, pacata, in cui si riflette, assolutamente informativa... Forse su un programma di Corrado Augias».
“Bandiera gialla” segnò un cambiamento culturale, e diede una scossa alla radio.
«Il cambiamento fu totale. Perché prima di noi la radio era quella che ascoltavano i vecchi, con le rubriche scritte, firmate e controfirmate dai dirigenti. Erano lette da attori o annunciatori, noi inventammo la radio di oggi, moderna. Libera».
È ancora innamorato della radio?
«Sempre. Ero piccolo, non c’era Radio Rai e sentivo Radio Bari, era stata liberata prima Bari che Roma. La radio ha qualcosa di speciale, fa lavorare la fantasia, lo abbiamo constatato con Alto gradimento. E poi regala good vibration, per citare il titolo della canzone dei Beach Boys. Ci sono voci che hanno vibrazioni che ti fanno commuovere più dell’immagine».
Diventaste il punto di riferimento dei giovani, anche quella fu una rivoluzione.
«Quando abbiamo inventato Bandiera gialla non c’erano i giovani, c’erano i ragazzi coi pantaloni corti o i pantaloni alla zuava. I teenager da noi non esistevano, c’erano in America. Abbiamo inventato la categoria ‘giovani’, poi diventati beat e poi capelloni».
Eravate consapevoli di quello che stavate facendo?
«No. Eravamo entusiasti, ma non coscienti di inventare una maniera diversa di comunicare».
Lucio Battisti si esibì la prima volta da voi. Come lo convinceste?
«Non voleva assolutamente cantare, gli mettemmo la chitarra in mano, e lui propose le composizioni che aveva scritto per i Dik Dik e l’Equipe 84. Un talento. Tutto il fenomeno beat lo rubai alla beat generation americana. Leggevo Kerouac, Ferlinghetti. Dovendo scrivere una scaletta, che poi non veniva neanche letta, ci dicemmo: la musica chiamiamola beat, prima si chiamava yé-yé ma non ci piaceva. Beat ci piaceva molto di più, nacque la moda beat, le abitudini beat».
Dieci anni fa, per i festeggiamenti dei 50 anni di “Bandiera gialla”, Boncompagni con grande ironia spiegò a “Repubblica” che i cantanti degli anni 60 erano spaventosi e l’Italia era molto indietro, ma che “per quelli di questi anni ci vogliono gli arresti domiciliari così non fanno danni”. Anche lei li spedirebbe in galera?
(Ride) «Sì in memoria di Gianni, che peraltro era anche un finissimo intenditore di musica classica. Noi sceglievamo e proponevamo gli artisti, con Adriano Mazzoletti e Renzo Nissim. Pensi che fummo autorizzati a mettere i dischi di nostra proprietà, ce li portavamo in studio».
Lanciaste Rocky Roberts e Patty Pravo: come capiva che un artista funzionava?
«Quello è un talento, ma non voglio definirlo così riferito a me: diciamo che è il mio dono, ho un sesto senso; ascolto una canzone e capisco le potenzialità. È successo con A chi di Fausto Leali, che era un pezzo inserito in un lp. Chiamai Giovanni Battista Ansoldi, proprietario della casa discografica, e gli dissi: “Se fate il singolo vendete un sacco di copie”. Sa quanto ha venduto?».
No.
«Due milioni di copie. Cambiavamo perfino la facciata A con la B, è successo con Acqua azzurra, acqua chiara».
Ha nostalgia di quegli anni?
«Sì. Non può immaginare com’era bello il clima e come ci divertivamo».