corriere.it, 16 ottobre 2025
Vita da «nanny», le tate dei super ricchi di Milano: inglese perfetto, lavoro nel weekend, stipendio di 4 mila euro al mese. «La candidata ideale? Sa nuotare e sciare»
«Potrebbe evitare le parole con la R? Il piccolo Achille le pronuncia male». La videochiamata delle 7.58 si apre sul soggiorno color sabbia della prima famiglia che cerca tata. Se ne intravede l’arredo: parquet in rovere, tappeto persiano oversize, divani in velluto arancione. Dalla vetrata a tutta altezza, i balconi geometrici di CityLife. Anna (nome di fantasia, preferisce rimanere anonima) annuisce. Fare la nanny («dirlo così a Milano funziona meglio») significa anche questo: assecondare i genitori dei bambini di cui si prende cura. «Sa nuotare, sciare? È disponibile a trasferirsi a Saint Moritz due settimane e a Forte dei Marmi per le vacanze estive?», prosegue Lucrezia, avvocato d’affari, tailleur sartoriale, voce che non inciampa. In collegamento da Singapore, il marito Edoardo, consulente finanziario: «La mia assistente le invierà l’NDA da firmare (l’accordo di riservatezza, ndr) per l’eventuale settimana di prova».
Anna appartiene a una categoria particolare: le tate professioniste dell’élite milanese. La chiama «borghesia in giacche su misura»: rientrano tardi e vogliono bambini che ridano bene, dormano presto, parlino inglese. Ne custodisce segreti, manie, piccole e grandi vanità. Dai primi di ottobre è di nuovo sul mercato. L’abbiamo «affiancata» per una settimana nella ricerca di una nuova famiglia. Ha 46 anni e pratica il mestiere da 20. Passo svelto, scarpe basse che non conoscono il trasandato. Non vuole che la si confonda con una colf: «Non lucido pavimenti né vetri. Mi occupo di bambini, e soltanto di loro».
Anna organizza attività adeguate all’età, segue lo svezzamento, mette ordine in camerette e armadi, imposta ritmi di sonno-veglia. Ovunque si rechi, porta con sé un’agenda a fiori: nomi, orari, svezzamenti, allergie, note su ninne e filastrocche. In Porta Romana ha comprato un bilocale, ma non ci abita: «Cresco i figli degli altri: l’accordo è convivere con loro», dentro mondi domestici pensati su misura. Stanze dei giochi grandi come una scuola. Guardaroba con body piegati per colore. Passeggini gemellari comprati per un figlio solo, «così dorme meglio». Baby monitor collegati alla domotica, che mandano notifiche se la luce non è al 30 per cento. Cani da 7mila euro addestrati a non salire sul divano e nonni che promettono di badare ai piccoli, ma poi chiamano l’autista per farsi portare al ristorante.
L’arte delle richieste impossibili
«Può fare le notti a chiamata? H24 non serve, ma quasi. Il weekend alternato è sacro». Andrea è un cardiochirurgo milanese, fresco di separazione. «I miei figli non devono confondersi con le donne che passano da casa. Mi dovrà aiutare a gestire la situazione». Anna sorride: è il lessico familiare. Le videochiamate hanno un copione riconoscibile: quindici minuti per capire tono di voce e tenuta. Meglio concentrarle in pochi giorni per avere più scelta. «Formazione?», le chiede Audry, londinese vincolata a Milano per le start-up che segue. Le famiglie internazionali hanno fatto salire i compensi: cercano figure specializzate, poliglotte, che lavorino anche su turni di 24 ore. «Scienze dell’educazione, tirocinio al nido. Corsi annuali di disostruzione pediatrica. Uso il defibrillatore». E poi a raffica: «Mi descriva una giornata tipo». Anna risponde con frasi brevi, non utilizza mai aggettivi superflui: «Mattino fuori, attività motorie. Pranzo con proteine vegetali, riposo con rituale fisso. Pomeriggio manualità, lettura dialogica, giochi di ritmo. Alle 17, routine serale: luci basse, storia, niente schermi».
Nel weekend preferisce organizzare gli incontri di persona. Una coppia di architetti la riceve nella sala riunioni del loro studio in via Manzoni: tavolo di vetro, modelli in scala alle pareti. Chiedono un piano trilingue: lunedì e mercoledì inglese, martedì e giovedì italiano, venerdì francese. L’approccio educativo in cui credono si fonda sul rapporto con la natura: anche con la pioggia meglio uscire, «ma rientrare asciutti e senza portare foglie».
Muoversi, per una tata, è logistica e immaginazione: arrivare puntuale e saper leggere la casa. Conoscere il quartiere. Farmacia che consegna, panificio che fa la focaccia sottile, parco col bagno pulito. «Possiamo mettere un AirTag nel passeggino per ragioni di sicurezza? Niente foto dei bambini, niente tag geolocalizzati», le chiede Letizia, manager di multinazionale olandese con sede a Milano. Ha 5 figli, tre da matrimoni precedenti. Nell’attico di corso Magenta in cui abita, si alternano stiratrici, housekeeper e cuochi a chiamata. «Metodo Montessori o Reggio Emilia? Ci tenga lontani dal baby talk, per favore, e introduca i fonemi corretti».
«Può mostrare le mani?»
La sequenza continua, a metà tra colloquio e interrogazione: «Interazione con la famiglia?». Anna è preparata: due pagine di routine e obiettivi, micro-report giornaliero e un check di dieci minuti il venerdì. Poi la domanda che spiazza: «Può mostrare le mani?». Le appoggia sul tavolo: curate, senza smalto acceso. Le domande classiche sono sempre quelle, la liturgia dell’ingaggio: orari («8–20, ma elasticità»), referenze («può mettere in contatto le famiglie precedenti?»), salute («allergie? schiena a posto?»), mobilità («taxi fatturati?»), lingue («inglese con noi, italiano con i nonni»), cucina («pappe senza sale, niente zucchero fino ai tre anni»), gestione digitale («zero schermo, ma podcast sì»). Le «fisime» arrivano presto. Anna se le appunta tutte: niente profumo, «la bambina si agita». Vestiti neutri, niente loghi, «il brand lo scegliamo noi». «Può ridere piano? Il padre della baby è in call». Divisa, «per non confonderla con una zia». «La nostra casa è low tox: niente ammorbidente, solo percarbonato. La nostra Ines le mostra come si diluisce». Alle 12:17 un audio su whatsapp: «Siamo in zona Pagano, cerchiamo da ottobre. Videochiamata oggi?».
Le agenzie specializzate
«Vai da loro, però attenta: ti fanno la prova con il manichino», le scrive una collega. Nel pomeriggio, entra in una nuova agenzia di collocamento per collaboratori domestici di alto profilo. «Una boutique agency con la lista d’attesa». La scena milanese è affollata di definizioni: tata live-in/live-out, puericultrice per i neonati, educatrice per i più grandi. Gli inglesismi non sono vezzi: in certe agenzie, fanno salire il prezzo e le aspettative. «Le interessa una posizione a Dubai?». Alla tata non è richiesta alcuna partecipazione economica, è lei la risorsa su cui si guadagna. La famiglia paga una commissione «da quattro cifre» (di solito una mensilità o una percentuale mai inferiore al 20% sull’annualità dello stipendio). In cambio pretende una proposta di cinque candidate che rispondano alle loro esigenze. «I soldi in gioco non sono pochi», dice Giulia Garroni Parisi, consulente senior di Nanny & Butler, agenzia internazionale che seleziona tate e personale domestico d’alto profilo, con sedi a Londra, Milano, New York e Dubai. «A Milano si lavora bene: è una città che corre, dove la cultura del servizio è radicata. Le famiglie sono abituate a pagare per la qualità».
Il (super) tariffario
Gli stipendi variano molto. «Una tata convivente parte da 1.800 euro al mese; con lingue, trasferte e responsabilità arrivano a 4.000, anche 5.000 mensili». Tredicesima, Tfr, contributi. Senza intermediazione, la trattativa è più grezza: «Fattura? Preferiremmo no. Facciamo un forfettario». Anna incrocia le braccia: «Regolare, grazie». A volte includono la formazione: «Corso di disostruzione per i nonni, lo seguirebbe anche lei?». Le figure come Anna si affidano alle agenzie. «Si crea un rapporto di fiducia: gestiamo la negoziazione del contratto, valutiamo le referenze. Costruiamo un profilo completo, non solo tecnico ma umano», spiega Garroni Parisi. Sul sito dell’agenzia, le regole sono nette: «La camera della tata non può essere una lavanderia, un garage o una stanza di passaggio. Deve avere una finestra, una porta, e garantire privacy». Funzionano bene le chat chiuse di quartiere – Pagano, Brera, Risorgimento. Le colleghe si ereditano i posti: se una famiglia si trasferisce a Londra, il contatto vola all’amica. È il canale più rapido nel mondo altospendente. E poi le parrocchie in zona Magenta o San Siro, le scuole internazionali: le famiglie le frequentano meno, ma ci passano i nonni e i portinai.
«Se cade, come si comporta?»
Parco Sempione a metà pomeriggio, altalene occupate, piccioni educati a rubare merende. La madre di Lea osserva da lontano. «Se cade, cosa fa?», chiede. «La guardo cadere, poi lo aiuto a rialzarsi». Anna le tasta la fronte, capisce che non è febbre, è sole. Cappellino, ombra, acqua. Azioni piccole, ma decisive. Ogni famiglia ha un piccolo codice penale: i «mai» (mai zucchero, mai noci, mai cartoni prima di cena), i «solo» (solo grano saraceno, solo stoviglie in bambù, solo coperte di lana merino), i «subito» (subito lavare le mani, subito togliere le scarpe, subito igienizzare le ruote del passeggino).
La prova dura un pomeriggio e termina a casa: «Se arriva un corriere, non apra. Se suona la porta, non apra. Se suonano i nonni, apra, ma solo dopo che mi ha scritto». Le pause sono uno sguardo alla chat delle colleghe: «A voi hanno chiesto di usare la macchina per il latte di avena?», «A me di cantare con l’accento british». Si ride, ci si passa contatti. È una corporazione gentile, la confraternita invisibile che fa girare le case.
La telefonata che conta arriva dopo dieci giorni. «Ci è piaciuta. Possiamo iniziare lunedì?». Anna appoggia il telefono sul tavolo, inspira. «Sì, signora Lucrezia. Con regolare contratto, orari chiari: 8.30–18.30, due sere al mese su richiesta. Niente notti. Trasferte concordate con anticipo. E la prova la inseriamo in fattura». Silenzio di un secondo. «D’accordo».