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 2025  ottobre 15 Mercoledì calendario

Intervista a Vittoria Belvedere

Vittoria Belvedere, volto amatissimo della serialità televisiva, da anni ha scelto come suo terreno d’elezione il teatro ed è felicissima, «anche se in Italia, paradossalmente, viene considerata una scelta di serie B», ci racconta. Ora, insieme a un altro volto tra i più amati del piccolo schermo, Cesare Bocci, sarà Cristina Drayton in Indovina chi viene a cena, testo di William Arthur Rose portato sullo schermo in un film leggendario con Spencer Tracy e Katherine Hepburn. Nei panni di Matt Drayton, appunto, Bocci, fino al 26 ottobre al Teatro Quirino di Roma, e poi in una lunga tournèe.
Il tema, quello di un matrimonio misto che fece scalpore nell’America di fine anni 60, oggi è più che mai di attualità in una società multietnica. L’adattamento, di Mario Scaletta, ha sfrondato la parte strettamente legata agli anni 60 per farne un testo attuale, anche nel linguaggio: «Si parla di differenze e di comprensione, termine, quest’ultimo, che preferiamo a quello più restrittivo di tolleranza», spiega il regista Guglielmo Ferro.
Belvedere, la sua prima volta alle prese con un testo quasi “sacro”.
«La nostra produttrice, Tania Corsaro, lo aveva portato in scena già 30 anni fa. E poi abbiamo Spencer Tracy e Katherine Hepburn che lo portarono al cinema, lei prese anche l’Oscar come miglior attrice. Una bella responsabilità. Eguagliarli è impensabile ma il nostro intento è quello di ispirarci alla loro eleganza e dolcezza nell’interpretare quel ruolo. Cesare Bocci è una persona meravigliosa, e io sono molto fiduciosa».
Temi sensibili, e il “politically correct” rende tutto più spinoso.
«I temi sono sensibili ma ancora non superati. Nella commedia originale avevamo a che fare con una relazione interrazziale, oggi con differenze di religione, sociali e di preferenze sessuali. Ci proclamiamo aperti e liberi ma poi, alla prova dei fatti, non lo siamo veramente. Siamo ancora pieni di pregiudizi e tabù. Bisogna cercare di andare oltre le barriere e vedere chi si ha davanti, oltre le differenze».
Lei ha subìto il razzismo sulla sua pelle da bambina, quando dalla Calabria la sua famiglia si trasferì in Brianza.
«Sì, negli anni 70, 80 e 90, e mi pare che anche oggi il problema non sia del tutto risolto. Ci trasferimmo in una palazzina di sette piani. Io scendevo in cortile a giocare con gli amichetti e c’erano alcune famiglie milanesi molto bigotte che dicevano ai figli “non giocare con lei, è una terrona”. Ricordo bene questa definizione ma non mi è mai pesata molto. In casa mia c’era sempre un clima d’amore, e poi il mio carattere è così: non mi sto a fasciar la testa, vado avanti per la mia strada».
I suoi genitori cosa facevano?
«Mio padre era un muratore, la mamma lavorava in un’impresa di pulizie. Oggi sono in pensione, vivono ancora in Brianza e sono felici. Spero che certe problematiche siano superate».
Lei iniziò come modella.
«Ho cominciato andando a studiare a Milano in una scuola per stilisti, negli anni 90, e ho avuto l’occasione di andare a fare un provino come modella, in un’agenzia molto conosciuta, la Caremoli. Da lì è cominciato tutto».

A Milano, negli anni 90, l’ambiente della moda non era una passeggiata.
«Sarà, ma io non mi sono mai accorta di niente. Forse “sono cecata” come diceva la Marchesini, e non ho mai visto niente, ma non mi hanno mai proposto cose trascendentali. Per me è andato tutto liscio, forse per come mi ponevo. Quello che ricordo sono le code interminabili ai provini, e queste ragazze ad aspettare per ore in fila, molte straniere. Io spesso aspettavo, altre volte mi stancavo e andavo via. Ma io avevo una casa, avevo mamma e papà e un piatto caldo che mi aspettava».
I suoi genitori l’hanno sostenuta nella sue scelte?
«Devo dire di sì. Mio padre mi diceva che se non avevo voglia di studiare avrei dovuto lavorare. Perdere tempo e andare a divertirsi senza fare nulla era fuori discussione. Ho sempre aiutato economicamente la mia famiglia, finché poi non mi sono trasferita a Roma».
Dove si avvicinò alla recitazione.
«Sono arrivata a Roma attraverso la moda, e in quegli anni ho conosciuto Paola Petri, moglie del regista Elio, che ha creduto in me e mi ha permesso di imparare a recitare sul campo, con maestri del cinema come Mauro Bolognini e Florestano Vancini, attori come Barbara De Rossi, Franco Nero, Richard Harris, Peter O’Toole. Dei mostri sacri, che mi hanno sempre aiutata».
Il primo provino?
«Con Florestano Vancini, per la miniserie Piazza di Spagna, che raccontava l’ambiente dell’aristocrazia romana, Marina Ripa di Meana e dintorni. Quando seppe che ero stata presa, la mia agente chiese al regista se voleva che mi affiancasse un maestro di recitazione, e lui rispose “no, altrimenti me la snaturalizzi”. Lei mi affiancò un attore di teatro per imparare le battute, imparare a piangere, a ridere e soprattutto la dizione, visto che arrivavo dalla Brianza e ero tutta “uè, figa” e vocali aperte».
Oltre al cinema c’è stata tanta televisione, serialità importanti.
«Erano dirette da autori, c’era più tempo e più cura».
Negli ultimi 15 anni ha lavorato molto a teatro. Da “esterna”, come giudica questo momento nel cinema e nella tv?
«Un po’ faticoso, ma non non ne sono coinvolta direttamente, ormai è come se avessi gettato un po’ la spugna, qui da noi funziona così. Mentre all’estero se fai teatro sei un grande attore e ti chiamano a recitare anche al cinema, in Italia se fai teatro è come una seconda scelta. Al cinema lavorano sempre gli stessi attori, ma non lo dico per recriminare. Non sono dentro? Va bene così, e sono felice. Ho scoperto il teatro in tarda età, a differenza di molti colleghi che hanno iniziato dal teatro per poi passare al cinema. Sono felice perché ho capito l’importanza del mio lavoro, ho capito chi sono io e credo di essere brava, ho delle qualità. Credo di essere cresciuta e maturata e più consapevole del mio valore».
Il lavoro di attore è più difficile a teatro?
«Sul set si recita a pillole, hai 3 o 4 minuti per girare la scena. A teatro c’è una costruzione vera e propria, è molto più faticoso. In teatro il lavoro dell’attore è un mestiere meno privilegiato, non ci sono gli stessi soldi, è più faticoso, a cominciare dai chilometri da percorrere tra una data e l’altra della tournèe».
Ha raccontato di aver subito avance da alcuni produttori, e ha detto “noi donne ci sentiamo sempre colpevoli di aver provocato il maschio”.
«Sì, è accaduto. Nella vita privata sono molto mascolina negli atteggiamenti e tendo a nascondermi. Un esempio banale: mai messo uno smalto rosso. Mi sono data la colpa ma era l’unico modo per riuscire a sfuggire alla violenza. Sperando che si sentisse una cacca umana. Era l’unico modo perché era un armadio a quattro ante e mi si era buttato addosso. Per fortuna ci sono riuscita, dicendo “perdonami, forse ti ho fatto capire..., ma non era mia intenzione, perdonami” e lui è tornato in sé. È stata una strategia di fuga».
Sposata da 26 anni, tre figli di 25, 20 e 15 anni. L’amore come cambia?
«Abbiamo fatto un figlio ogni cinque anni, tra un film e l’altro perché lavoravo molto. Sono più innamorata oggi che il primo giorno. A volte si arriva al matrimonio all’apice dell’amore e poi va scemando, a noi è capitato l’opposto».
Ci racconti l’amore in crescendo
«Ho conosciuto Vasco (Valerio, organizzatore di eventi, ndr) e mi sono innamorata. Ero consapevole che era l’uomo che avrei voluto vicino per costruire una famiglia. All’apice dell’innamoramento, dopo cinque mesi, lui mi ha lasciato, perché aveva avuto paura. Poi è tornato all’attacco, e in me l’amore era diminuito, non l’amavo come il primo giorno, mi aveva deluso. Però sapevo che fosse lui la persona giusta, e l’ho sposato. Oggi credo di amarlo più del primo giorno. Ci siamo riscoperti e ci siamo ri-amati».
E continuate a farlo da 26 anni, senza scossoni?
«Abbiamo avuto una crisi, circa un anno e mezzo fa, e io ho lottato con le unghie e con i denti, non volevo credere che vent’anni di matrimonio potessero finire nella spazzatura così. In un momento particolare della vita di mio marito io non gli sono stata vicina. Non mi sono accorta di determinati campanelli, delle sue richieste di aiuto, e c’è stata una criticità. Ma siccome non me l’aspettavo ho lottato, non ho ceduto a quella richiesta. Oggi lo amo più di allora. E a 53 anni aggiungo anche che ho avuto bisogno dell’aiuto della psicoterapia, lo dico a cuor sereno. Ho avuto bisogno di confrontarmi con il sesso opposto, un terapista, che mi aiutasse a capire chi ero e perché non mi fossi accorta delle sue richieste di aiuto. Ancora oggi affronto questo percorso, perché credo nel mio matrimonio e nella mia famiglia».
Che genitori siete?
«Attenti e presenti, al limite dell’assillante, e giochiamo spesso il ruolo alternato del “poliziotto buono e poliziotto cattivo”. I nostri figli si lamentano della nostra rigidità ma a casa nostra funziona così, ci sono delle regole. Abbiamo beccato il grande quando si fece la prima canna e gli abbiamo tolto la macchina per un mese, per dire. Siamo così noi, un po’ dei generali».

Da sentimento a sentimento. Mi parla dell’amicizia che la lega a Enzino Iachetti?
«Tra noi è un amore mai nato.
Ci siamo conosciuti girando un film a Mosca, si intitolava Oro ed era un articolo 28, ovvero un film finanziato dallo Stato che parlava del sacco di Roma nel 1500, ci recitavano Franco Nero, Carlo Cecchi e un celebre attore russo. La sintonia e la complicità è stata immediata. Enzo era spaurito, era la sua prima esperienza sul set ed era all’apice del successo come comico. Dopo quel film le nostre strade si sono separate ma siamo rimasti sempre in contatto finché non è arrivato questo testo meraviglioso, Bloccati dalla neve, sono stata io a suggerire il suo nome e lui, dopo una prima esitazione, ha accettato con gioia».
Cosa ha pensato quando ha visto la lite del “definisci bambino”?
«Non l’ho visto in diretta perché ero a teatro, ma mi sono arrivati subito i video. Lui è così, è sincero e per i bambini va in guerra. Però paghi lo scotto della sincerità, gli sono arrivate minacce e molti programmi non lo invitano. Rendiamoci conto in che mondo viviamo».