Corriere della Sera, 15 ottobre 2025
Intervista a Francesco Baccini
Francesco Baccini, trentasette anni di carriera, due milioni di dischi venduti, una targa Tenco e lei non smette di sorridere.
«Sono l’unico cantautore genovese che ride».
In effetti.
«Paoli, Lauzi».
Non proprio allegri.
«Ma che musica. Io sono solo l’ultimo della grande scuola genovese».
Il più ostinato e contrario?
«Di certo non seguo le logiche commerciali, faccio un disco quando mi va».
Il prossimo singolo esce il 24 ottobre, il titolo è «Matilde Lorenzi».
«Ovviamente è dedicato alla giovane sciatrice morta in un incidente in Val Senales. Ma non è una canzone triste: è un omaggio alla sua vita, alla sua giovinezza».
Quasi impossibile pensare a un Baccini triste.
«Nemmeno quando, da giovane, facevo lo scaricatore di porto a Genova».
Ma la notte andava a suonare il pianoforte in un club.
«Gratis».
Non ci crede nessuno.
«È vero, pur essendo ligure chiedevo solo libertà nella scelta dei brani. I soldi, che ci crediate o no, non sono mai stati un problema. Quando decisi che avrei lasciato Genova per Milano sapevo che avrei trascorso giorni duri».
È andata così?
«Per mesi ho dormito in auto. Facevo i provini ma nemmeno sapevo dove farmi richiamare in caso di esito positivo».
Quando hanno pubblicato il primo singolo, nel 1988, come l’hanno rintracciata?
«Per caso. Siccome la casa discografica aveva la mensa, io mi infilavo di nascosto per rimediare una pastasciutta. Però all’epoca non c’erano i cellulari, così avevo lasciato il numero di casa di un’amica. Un giorno torno dal pranzo e questa mi dice: “Ti cercano”».
Alleluia.
«Sì, peccato che mi cambiarono nome: la mia prima opera è firmata “Espressione Musica”. Ora, ditemi: ma che cavolo di nome è?».
È vero che fu Vincenzo Mollica a insistere affinché le facessero suonare e cantare quello che le si addice?
«Vincenzo mi ha scoperto, è un amico caro. È stata la prima persona a cui ho fatto ascoltare Matilde Lorenzi. Mi ha chiamato: “Francesco, è un disco commovente”».
Fabrizio De André ha duettato con lei nella sua «Genova Blues». Come vi siete conosciuti?
«Lui mi vide al Costanzo Show e disse alla moglie: “Oddio, ma quello è Luigi”. Dovete sapere che io da giovane ero tale e quale a Tenco».
Credette di aver visto un fantasma.
«Venne al lancio del mio primo disco e allora fui io a convincermi di avere le allucinazioni: vidi in fondo alla sala nel buio una sagoma che gli assomigliava. Mai avrei immaginato che Faber sarebbe venuto a sentirmi. E invece, alla fine del concerto, si avvicinò, sornione: “Belin, vieni a cena da me”».
Era nata un’amicizia.
«Notturna. Sia io che lui andavamo a dormire alle otto del mattino e cominciavamo a vivere alle cinque del pomeriggio. Una notte mi disse: “L’unico che mi faceva ridere era Luigi”. Tenco non era il depresso ombroso che tutti dipingono, era divertente».
Torniamo al suo primo singolo, «Mamma dammi i soldi». Era la sigla di chiusura di Sanremo, andava in onda alle tre di notte, chi la sentì?
«Nessuno. Tranne un tipo che lavorava di notte: Renzo Arbore».
Come andò?
«Mi chiamò a partecipare a D.O.C., forse il più importante programma di musica della Rai. Lì ho conosciuto Chet Baker, per dire».
Maurizio Costanzo.
«Credo di essere stato il primo cantante a esibirsi nel suo salotto. Quando c’ero io, lui a un certo punto faceva allontanare Bracardi dal pianoforte e mi cedeva il posto. Fu da lui che feci al piano, per la prima volta, “Le donne di Modena”. Mi venne spontaneo, il disco non c’era ancora, i discografici erano furiosi».
Lei è un ligure che ride di sé stesso.
«Eppure, agli inizi, cercarono di farmi fare cose tristi e melodrammatiche, “l’ironia non vende”, dicevano. Fu Enzo Jannacci che mi confortò quando mi disse: “Tu non c’entri con quelli di oggi, tu sei uno di noi”».
Com’era Jannacci?
«Quando stavo a Milano e non avevo una lira mi scarrozzava da una parte all’altra col suo motorino».
È successo tante volte?
«Sì, e ne ricordo una. Mi ritrovai in viale Monza, allo Zelig. Gino e Michele mi fecero un provino, andò bene. Paolo Rossi, Claudio Bisio, Elio: li ho conosciuti tutti».
Lucio Dalla.
«Mi tese un tranello».
Racconti.
«Irpinia, un concerto in cui, ovviamente, la star era Lucio. Lui salì sul palco, fece cinque canzoni poi scese e mi guardò ridendo: “Bac, tocca a te, adesso sono cazzi tuoi”. Stavo per svenire, ma mi ripresi: feci nove canzoni, il pubblico era impazzito. Poi raggiunsi Lucio, che mi disse soltanto: “Martedì sera hai impegni?”. Fu così che aprii una serata storica del tour Dalla-Morandi, diecimila persone».
Nell’album «Nomi e cognomi» lei non le manda a dire. A Venditti, Andreotti.
«Feci infuriare Venditti, che non capì che quello era il brano di un ammiratore. Io amavo il Venditti degli inizi, non quello delle canzoni d’amore. E, semplicemente, misi questo in una canzone. Ci chiarimmo molto tempo dopo, in diretta radio. Diventammo poi quasi amici».
Celentano, anche lui nel disco, si arrabbiò?
«No, anzi, mi chiamò in tv. Si divertì molto e mi volle in Svalutescion, trasmissione in due puntate, surreale. Eravamo io, lui, Baglioni e Morandi. Il problema era che mancavano cinque giorni alla messa in onda e non sapevamo minimamente che cosa avremmo dovuto fare. Ho un ricordo: Morandi e Baglioni che ballano su una canzone di Celentano. Che bei tempi».
«Nomi e cognomi» è un disco cantautorale, però nella struttura dei testi, ha la schiettezza del rap.
«E infatti qualche anno fa mi arriva su Instagram un messaggio privato. Era un certo Fedez. Non sapevo chi fosse, ma vidi che aveva già centomila follower. Federico mi scrisse che stava per presentare uno dei suoi primi lavori all’Alcatraz e che gli avrebbe fatto piacere avermi in sala, visto che conosceva a memoria le mie canzoni».
Lei ci andò?
«Non solo. Alla fine del concerto andai a salutarlo in camerino. Con lui c’era un ragazzo che mi disse: “Ci facciamo un selfie? Sono un tuo fan”. Era Guè Pequeno».
Baccini precursore (involontario) del rap italiano?
«Forse sì, almeno nella forza spontanea delle parole».
In «Matilde Lorenzi» lei canta la gioia di vivere, con parole come «Gli occhi brillano / La mia vita è tutta qua». Lei può dirsi felice?
«Ho conosciuto migliaia di persone, ho tante cose da raccontare, ho la fortuna di essere padre e di vivere di musica. Ho conosciuto altri mondi, per esempio pochi sanno che sono famoso in Cina. Mi sono esibito davanti a decine di migliaia di persone insieme a Cui Jian, pioniere del rock cinese. Esperienza incredibile: le mie canzoni spesso fanno ridere, ma dovevano essere tradotte. Allora immaginate un fiume di persone che scoppia a ridere con qualche secondo di ritardo».
«Genova Blues» è un omaggio alla sua città. Lei oggi vive a Imbersago, in Brianza. Le manca il mare?
«I genovesi si dividono in quelli che restano e in quelli che se ne vanno sognando di tornare. Indovinate in quale delle due categorie sono io».