La Stampa, 14 ottobre 2025
Intervista a Kristiane Uderstadt
Kristiane Uderstadt, il grande amore di Gigi Meroni, ha spiegato in una lettera toccante la donazione al Museo del Toro dell’autoritratto dell’iconico numero 7. Difficile separarsene?
«Sì, è il quadro cui tengo di più, ma l’ho fatto con il cuore. Nella casa del Toro ogni tifoso può andare a vederlo».
Dove l’ha dipinto?
«Nella mansarda di piazza Vittorio, lavorando tutta la notte. Mi ero addormentata e al mattino me lo trovai davanti. Andò subito a incorniciarlo».
Domani sono 58 anni dalla scomparsa, cosa rimane?
«Mi porto dietro tutto. La mia vita è stata una sofferenza unica dopo quel giorno. Tutti gli anni faccio portare tre rose rosse al cimitero di Como, qualche volta vado anch’io, ma preferisco pensarlo in altro modo. È sempre con me».
Se la ricorda quella sera?
«Stavo tornando da una cena con Oreste Mattana, il camiciaio del Toro cui ho consegnato personalmente il quadro, grande amico, e sua moglie Lucia. Me lo sono trovato a terra per strada. Non erano sicuri fosse lui, si era tagliato un po’ barba e baffi: l’ho riconosciuto subito. Non so come abbia fatto il mio cuore a reggere».
Cosa le è rimasto di Gigi?
«Tutto, era il mio unico tesoro. Se penso all’amore, penso a lui. Non ho mai tolto l’anello che mi ha regalato, una fedina con dei brillanti».
Chi era Luigi Meroni?
«Un ragazzo sempre pronto ad aiutare gli altri: speciale, eccezionale, altruista. Chi l’ha conosciuto non poteva non volergli bene. Era anche dolcissimo, ogni volta che tornava dall’allenamento mi portava una rosa: la mia anima gemella, perfetto per me».
Calciatore, compagno, artista, quale preferiva?
«Era uguale in campo come nella vita. Mi piaceva tutto di lui, anche la sua gallina, che però mi odiava».
Andava a vederlo giocare?
«Ero sempre allo stadio ma i giornalisti non mi beccavano. Sapevano che avevo una pelliccia di leopardo, così la davo a qualcuno per non farmi riconoscere. Lui non voleva che mi fotografassero, era una forma di gelosia e protezione, mi piaceva anche per questo».
Qual era il sogno di Meroni?
«Ragazzino, disegnava le cravatte a Como: a fine carriera avrebbe voluto comprare casa là e dipingere».
Dove vi siete conosciuti?
«A Genova al bar Bruno, davanti ad una tazza di cioccolata calda. Eravamo ragazzini».
Era un’Italia bigotta, non il massimo per una coppia come voi: lei sposata, lui anticonformista…
«La fortuna nostra è stata che tutti i giocatori ci hanno aiutato, compreso l’allenatore Rocco. In ritiro mi presentò come sua sorella. “Strano, siete così diversi”, disse Rocco che aveva capito tutto: a Torino ho passato gli anni più belli, specie in quella mansarda».
Come l’ha conquistata?
«Mi chiamava così tanto che una volta la polizia l’ha fermato perché aveva un sacco pieno di gettoni telefonici: pensavano li avesse rubati…».
Si sente ancora la ragazza del Luna Park?
«In verità non lo sono mai stata, è nata così perché il nonno di mio fratello aveva le giostre, ha costruito Gardaland. Ma va bene, a me bastava che mi lasciassero il mio Luigi».
Cosa le diceva del Torino?
«Lo amava ed era amato, quando l’avevano venduto alla Juve scoppiò una rivoluzione in città e saltò tutto. Era felice lì, in quel gruppo».
Chi erano gli amici del cuore?
«Innanzitutto Poletti, lo vedo e sento tuttora. Poi Vieri, era un gruppo affiatato».
Quando perdeva tornava a casa arrabbiato?
«Mai visto incavolato, neanche quando Fabbri, ct azzurro, non l’ha fatto giocare contro la Corea. Ricordo che voleva fargli tagliare i capelli, ma lui rispondeva che gli davano fastidio le forbici… Quando venne ad allenare il Toro un po’ l’ha fatto».
Oggi chi gli assomiglia?
«Kvaratskhelia mi ricorda un po’ il mio Luigi».