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 2025  ottobre 12 Domenica calendario

Grazie papà, ora ti ho capito

«Tutto quello che dici è registrato su quel nastro: potranno ascoltarti per sempre. Non sarai mai perduto». A parlare è Jerry Stiller, con la moglie Anne Meara stella della comicità americana dagli anni Sessanta. «Non sarai mai perduto», sottolinea nella registrazione audio che sentiamo nel finale del documentario che Ben Stiller – anche lui star della comicità americana e non solo – ha dedicato ai suoi genitori: Stiller & Meara. Niente è perduto. «È nato come una sorta di tributo», dice l’attore e regista a «la Lettura» dal New York Film Festival, dove il 5 ottobre ha presentato il film che il 24 arriva su Apple Tv+. Un tributo che poi è diventato altro: «Un film sulla famiglia, sull’elaborazione del lutto». Qualcosa in cui ogni figlio adulto che affronta la perdita dei genitori può riconoscersi.
Jerry Stiller, scomparso nel 2020, cinque anni dopo Anne Meara, ha documentato tutta la loro vita insieme, iniziata nel 1953: prove e chiacchiere catturate su nastri e cassette audio, film di famiglia, lettere, ritagli di giornali sul successo dei figli Ben e Amy, tutto conservato nell’appartamento al 118 di Riverside Drive, nell’Upper West Side di New York.
È da lì che Ben Stiller è partito.
Che cosa l’ha spinta a realizzare il documentario proprio ora?
«Ho iniziato a lavorare al film nel 2020, subito dopo la morte di mio padre. Con mia sorella Amy dovevamo svuotare l’appartamento dove siamo cresciuti per venderlo. Il mio primo istinto è stato prendere in mano la telecamera, proprio come avrebbe fatto lui. Eravamo all’inizio del Covid e non avremmo potuto organizzare una commemorazione: mi sembrava un modo per entrare in contatto con lui dopo averlo perso. All’inizio doveva essere un tributo (uso questo termine in mancanza di uno migliore); ma questo avrebbe interessato solo me. Invece volevo che il film venisse visto. Allora ho cercato un filo conduttore emotivo. In quel momento non pensavo che il film avrebbe parlato anche di me. Ma si è evoluto in modo naturale in un film sui miei genitori, su me stesso, sulla mia famiglia».
Ripercorre la carriera di Stiller e Meara, il loro matrimonio (ebreo lui, cattolica lei), gli anni in coppia all’«Ed Sullivan Show», le carriere individuali, la vita insieme nonostante le differenze. E, come in uno specchio, riflette su sé stesso. «Nella vita privata mi sentivo fuori fuoco, perso», dice nel film: «Ho iniziato a pensare ai miei genitori, allo stress di vederli lavorare insieme, le tensioni. Volevo capire come hanno fatto a rimanere insieme tutta la vita». A un certo punto, lei e Amy leggete le prime lettere che Jerry e Anne si sono scambiati, come è stato scoprirli come giovani innamorati?
«Sembravano persone diverse. Quando pensi ai tuoi genitori non li immagini in quel primo slancio dell’amore giovanile. È stato incredibile vedere quanta passione provassero l’uno per l’altra. Pensarli in quel momento è stato surreale; come vedere quanto fossero dediti al lavoro a quella giovane età. Scrissero quelle lettere mentre recitavano piccole parti in rassegne estive o teatri regionali, quando stavano cercando di farsi strada e sfruttavano ogni piccola opportunità».
In «Giovani si diventa» di Noah Baumbach (2014) interpreta un documentarista in difficoltà con il suo nuovo progetto. Ora dopo la regia di film di finzione («Tropic Thunder», per citarne uno) e serie tv (il drama sci-fi «Severance»), realizza il primo documentario. Quali sfide ha affrontato ?
«I documentari non sono semplici: devi vivere nell’incertezza per molto tempo; cosa che non mi viene naturale. Devi essere disposto a trovare una storia e permetterle di evolversi, percorrendo anche strade che non funzionano. Ti concentri su qualcosa che ti appassiona ma poi come trasferisci questa passione al pubblico? E tutto senza sceneggiatura? Ho avuto un montatore e partner produttivi fantastici – tra cui Geoffrey Richman, con cui ho lavorato anche a Severance —, fondamentali nel processo che ha permesso al film di trovare la sua storia».
Una storia molto personale...
«Un modo di affrontare il dolore, ma anche di entrare in maggior connessione con i miei genitori. E sono stato fortunato ad avere tutto questo materiale per farlo: filmati, le registrazioni audio, le interviste, le riprese originali in cui si vede cosa facevano tra uno sketch e l’altro...».
Mostra anche come sia cambiato il nostro modo di conservare i ricordi?
«Tutto è più effimero. Se qualcosa non ha successo, semplicemente scompare. Sono grato di avere questi nastri, videocassette, cose che esistono davvero. Le interviste televisive che mostro nel film non erano state conservate dai network, si sono salvate solo perché mio padre le ha registrate durante la trasmissione. Sono incredibilmente sincere: si parla di tutto, di relazioni, infedeltà... Sapevo che riprendeva tutto da quando eravamo bambini ma non pensavo avesse registrato anche le discussioni con mia madre».
Esplorando questo materiale ha scoperto qualcosa di nuovo su di loro?
«Oggi provo un sentimento ancora più profondo. Dalle discussioni registrate si capisce lo stress che dovevano affrontare come artisti e come coppia. Anche L’Ed Sullivan Show, che fu un’enorme opportunità, era ogni volta una sfida... Da bambino intuivo la tensione ma sentivo solo il loro essere distanti. È stata una scoperta risentire, da adulto, quelle discussioni, i confronti, mio padre che parlava dell’alcolismo di mia madre, e cose simili. Sono stati sposati così a lungo... In quella che sembrava totale sintonia. Sono state scoperte sorprendenti».
E su sé stesso, cosa ha scoperto?
«Ho imparato ad ascoltare davvero i miei figli e accettare la realtà di essere chi sono invece di rincorrere un’idea e non esserne all’altezza. Credo che questa capacità di accettare maggiormente la realtà abbia aiutato la nostra famiglia. Ora sono in un ottimo momento della vita».
Nel film lei intervista anche sua moglie, l’attrice Christine Taylor – a inizio riprese eravate separati – e i vostri figli, Ella e Quinlin...
«Il film parla di una famiglia che ha condiviso una professione; del modo in cui i membri di una famiglia si relazionano tra loro, generazione dopo generazione, di come i genitori influenzano i figli e così via... Ciò che tramettiamo, nel bene e nel male, il mondo in cui si affronta la perdita di un genitore. Inoltre mi piace che a chi ha conosciuto mio padre negli ultimi anni con le sitcom Seinfeld o King of Queens, il documentario mostri la sua vita precedente».
È anche un film sulla comicità. Come è cambiata e come sta ora?
«Con i social media si raggiunge un pubblico enorme molto rapidamente. Gli sketch tendono a essere più brevi: credo che abbiamo ridotto un po’ la nostra capacità di prestare attenzione. Viviamo in un mondo in cui correre rischi con la comicità è più difficile. Lo si vede chiaramente qui in America. Penso sia importante che i comici continuino a fare quello che fanno: sbattere la verità in faccia al potere e essere liberi di dire ciò che vogliono. Questa è la cosa più importante. E poi, bisogna dire ciò che si ritiene sia divertente. Basta che venga dal cuore».