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 2025  ottobre 12 Domenica calendario

I piccoli Sud

In Oceania si trovano Stati indipendenti, Stati indipendenti e associati con altre soggettività politiche a cui devolvono competenze sovrane e Paesi d’Oltremare (francesi, britannici e statunitensi): in questa galassia variegata, solo Australia (con circa 26 milioni), Papua Nuova Guinea (11 milioni) e Nuova Zelanda (5 milioni) superano il milione di abitanti. Se sottraiamo ancora alla lista Figi, che conta circa 900 mila abitanti e le Salomone con circa 800 mila, tutti gli altri hanno meno di 350 mila abitanti e ben sette sono sotto i 20 mila (Palau, Nauru, Tuvalu, Cook, Wallis e Futuna, Tokelau, Niue).
A lungo definiti «microstati», una definizione mal accetta localmente perché guarda solo alle estensioni terrestri e alla demografia e non alle distese marine e alle zone economiche esclusive (Zee) – da questo punto di vista la sola Polinesia francese è grande quasi quanto l’Europa —, questi Stati sono assai poco conosciuti in Occidente.
Considerati spesso poco più che curiosità folkloriche a cui avvicinarsi con atteggiamento paternalistico, i Paesi dell’Oceania sono oggi un terreno di scontri e tensioni per l’interesse strategico-militare del Pacifico e per le risorse che custodiscono, come minerali e fondali marini.
Se, tuttavia, proviamo a tirarci fuori da una prospettiva geopolitica che guarda, in definitiva, solo a rapporti di forza, e adottiamo una prospettiva internazionalista e interculturale, sono molti gli aspetti di interesse in questa area di mondo. Si tratta di uscire dai classici schemi «sviluppisti» in cui, come avviene anche con progetti finanziati dall’Unione Europea, si mira a diffondere altrove tecnologie green e sensibilità verso i cambiamenti climatici invece di provare a imparare come questi popoli hanno storicamente dato vita a economie sostenibili. Vivendo, in alcuni casi, da 3 mila anni su isole certo trasformate dall’impatto umano, ma capaci di assicurare le risorse per la sopravvivenza alle future generazioni.
Negli Stati e nei Paesi d’Oltremare del Pacifico vivono in gran parte popolazioni autoctone, con la loro ricchezza linguistica, artistica e culturale. Nella sola Papua Nuova Guinea si parlano quasi mille tra le 6 mila lingue del mondo, a Vanuatu oltre 70, i Kanak della Nuova Caledonia parlano 30 lingue indigene. Le lingue veicolano visioni del mondo (quelle che gli antropologi oggi chiamano «ontologie»), concezioni e pratiche dell’ambiente, forme di relazionalità sociale tanto preziose in un pianeta che vorrebbe ripensare il proprio futuro. A Futuna, a Samoa, a Tonga, a Kiribati persistono, per esempio, modalità di gestione della terra e delle risorse alternative, e a volte complementari, alla proprietà privata, di estremo interesse per lo sviluppo di politiche dei beni pubblici e condivisi. A Samoa, il sistema dei matai, incentrato su leader «tradizionali» di villaggio (uomini, donne e fakafafine, un terzo genere ampiamente diffuso nelle società oceaniane), garantisce come in molte altre isole polinesiane un’ampia partecipazione democratica alla vita pubblica: molti Stati dell’Oceania sono «poliarchie» in cui il potere politico è diffuso ed esistono freni e contrappesi all’insorgere di sistemi autoritari. La vivacità e la densità del dibattito pubblico nelle isole dell’Oceania è uno degli aspetti che mi hanno più colpito, in trent’anni di studio di queste società insulari.
Un altro aspetto interessante è costituito da un’organizzazione della società e delle relazioni internazionali che potremmo definire il modello dell’«isola-presidio». In arcipelaghi e isole come Niue, Tuvalu, Tonga, Samoa, i residenti sono un terzo, un quarto della popolazione complessiva. Gli altri abitanti originari delle isole si disperdono in Stati della regione (principalmente la Nuova Zelanda), negli Usa, in Europa, in Canada dove vivono e hanno formato comunità ormai stabilizzate da varie generazioni. Ciò che distingue l’«isola-presidio» dai più classici modelli di emigrazione, è la tenacia con cui i residenti nelle isole-madri, per così dire, preservano lingue, forme di politica e organizzazione economica e sociale capaci di accogliere coloro che decidono di fare ritorno da esperienze altrove.
La vita sociale ed economica dell’isola di Futuna, per fare un esempio che conosco da vicino, è tuttora scandita da una economia del dono, in cui la triplice legge teorizzata da Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono – l’obbligo di dare-ricevere-ricambiare – continua ad applicarsi alle risorse dell’orticoltura locale e ai servizi e lavori come la costruzione di abitazioni o la fabbricazione rituale della curcuma e di altri beni che circolano nei riti tradizionali. Intendiamoci: anche a Futuna esistono negozi in cui vige la logica del commercio per quanto riguarda i beni importati, ma la cultura del dono viene attentamente presidiata.
Sfruttando le nuove tecnologie di comunicazione e le opportunità di un mondo globalizzato, gli oceaniani hanno ripreso un cammino di «espansione» delle loro culture tradizionali, che ha travalicato i confini del Pacifico. Molti tra i miei interlocutori dell’Oceania non amano le parole «migrare» ed «emigrare» e si concepiscono piuttosto come persone in movimento – James Clifford li definiva «indigeni cosmopoliti» – rassicurate dal fatto che, se decideranno di ritornare, potranno reinserirsi in sistemi sociali «viventi». Come se l’emigrare e la «restanza», per citare Vito Teti, non fossero alternative, ma prospettive conciliabili in una forma di circolazione che ha bisogno di un’isola «presidiata» e socialmente viva.
Molti Paesi dell’Oceania hanno dato vita, e non da oggi, a forme di sovranità condivisa che sono il frutto di esigenze strategiche – solo Figi e Tonga, tra gli Stati con meno di un milione di abitanti, hanno un esercito; gli altri hanno ceduto la difesa agli Stati con cui sono associati (Nuova Zelanda e Usa) in cambio di consistenti fondi di finanziamento; ma sono anche il frutto di una filosofia politica che ha privilegiato storicamente connessioni e interdipendenze piuttosto che «popoli sovrani». In epoca pre-coloniale sono esistiti sì in Oceania regni e almeno un impero, quello tongano che a metà del Cinquecento si estendeva su gran parte della Polinesia occidentale, e tuttavia molti arcipelaghi erano legati da fitte reti di relazioni e scambio che sono giunte in parte fino alla modernità.
È proprio questo il tratto caratteristico delle politiche oceaniane contemporanee: superare i confini coloniali imposti dall’imperialismo spagnolo e olandese prima e poi tedesco, britannico, francese e statunitense, ricostruendo quella che viene definita la Pacific Way, il modo di vita delle genti dell’Oceania. Festival e competizioni sportive a livello popolare, incontri e politiche promosse dai principali organismi internazionali della regione (come il Pacific Island Forum e la Pacific Community), mirano a fare «riscoprire» alle società indigene la profonda relazione tra le loro lingue, culture, stili di vita.
Come diceva Epeli Hau’ofa, antropologo e scrittore nativo cresciuto in Papua Nuova Guinea da genitori tongani, addottorato in Australia e a lungo docente all’Università del Sud Pacifico di Suva, Figi – incarnazione del cosmopolitismo indigeno – un’isola è «piccola» e «vulnerabile» solo se viene isolata e chiusa. Lo Stato del Vaticano, potremmo osservare, sarà pure, demograficamente e territorialmente, il più piccolo del mondo, ma una fitta rete di relazioni e una lunga storia lo rendono tutt’altro che un soggetto religioso e politico trascurabile nel mondo globale. I supposti «piccoli» Sud dell’Oceania, con il pluralismo delle loro lingue e culture, con le loro «modernità tradizionali» costituiscono una bella e vivace sfida a chi continua a dividere il mondo tra un fantomatico Occidente e un altrettanto immaginato blocco del Sud globale.