La Lettura, 12 ottobre 2025
Il grande Sud
All’indomani della riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Ocs) a Tianjin e della parata militare di Pechino del settembre scorso, si è tornati a parlare di un presunto possibile «nuovo ordine mondiale» riequilibrato verso il Sud del pianeta, con la Cina alla sua testa. Seppur con toni più insistenti del consueto, è sempre lo stesso discorso che si ripete a ogni vertice dell’Ocs o dei Brics, soprattutto dopo la recente adesione a quest’ultimo organismo di cinque nuovi membri: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Indonesia. Nello spazio mediatico, l’Ocs e i Brics sono sistematicamente presentati come i pionieri di un futuro ordine mondiale costruito attorno al «Sud globale» – cioè a qualcosa che, semplicemente, non esiste.
Cominciamo dalla storia. L’Ocs è stata creata nel 2001 su iniziativa di Cina e Russia, con l’obiettivo principale di evitare che la loro competizione per l’influenza sull’Asia centrale ex sovietica degenerasse in aperta tensione; fin dall’inizio, vi furono infatti associate quattro delle cinque repubbliche ex sovietiche della regione: Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan. Nel 2017, quando i rapporti di forza tra Russia e Cina si erano ormai sbilanciati decisamente a favore della seconda, la prima tentò di riequilibrarli cooptando l’India, tradizionalmente vicina a Mosca; Pechino replicò cooptando il suo storico alleato in Asia meridionale, il Pakistan. Nel 2023 si aggiunsero l’Iran – al tempo stesso pedina e sorvegliato speciale di tutti – e la Bielorussia, semi-protettorato russo con sporadiche velleità di autonomia.
I Brics hanno tutta un’altra storia. Nascono nel 2009 prendendo in prestito un acronimo coniato da una multinazionale americana, Goldman Sachs, per indicare quelle che apparivano all’epoca le tigri emergenti dell’economia mondiale: Brasile, Russia, India e, soprattutto, Cina. Nel 2010 se n’è aggiunta un’altra, il Sudafrica, portando in dote la «s» finale (che, a scanso di equivoci, non sta per Spagna come crede Donald Trump). Poco dopo, però, gli effetti a medio termine della crisi del 2008 hanno colpito duramente quattro dei cinque membri e dimezzato la crescita cinese, passata dal +14,1% del 2007 al +6,9% del 2017. Risultato: dopo l’entusiasmo iniziale, quando tutti corteggiavano e magnificavano i Brics, dei Brics non si è quasi più sentito parlare per anni.
Poi, d’un tratto, sono tornati sotto i riflettori, e hanno cominciato a darsi arie di grandi federatori del mondo alternativo all’«Occidente» – un’altra entità fantasma, come la deriva americana e i dissidi interni all’Europa dovrebbero ormai aver dimostrato anche agli «occidentalisti» più irriducibili. Insomma, le relazioni internazionali vedrebbero schierati su un campo immaginario due «blocchi» inesistenti. Non c’è da stupirsi se nessuno ci si raccapezza più.
I Brics – come pure l’Ocs – sono tornati in auge dopo l’invasione russa dell’Ucraina, quando è scattata la corsa all’adesione di numerosi altri Paesi. La ragione è presto detta: la Cina, ma anche la gran parte dei nuovi postulanti, avevano fondate ragioni per temere di cadere, un giorno, sotto la scure di sanzioni simili a quelle comminate a Mosca, le più dure mai adottate contro un singolo Paese. L’allarme è cresciuto soprattutto quando, alla superpotenza del dollaro, si è aggiunta la sospensione di Mosca dal sistema internazionale di pagamento Swift.
Il Cremlino, atteggiandosi a innocente ingiustamente perseguitato, si è eretto a campione di un «nuovo ordine multipolare» nel quale gli innocenti cesserebbero di essere perseguitati. Per capire quanto quello slogan sia strumentale, basta ricordare che poco più di venticinque anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale – quando gli americani erano stati in grado di imporre le proprie regole a tutti in virtù della loro schiacciante superiorità – fu lo stesso presidente Richard Nixon a riconoscere che gli Stati Uniti non erano più «in una posizione di completa preminenza o predominio» (6 luglio 1971), dovendo ormai fare i conti con almeno quattro altri «poli»: Russia, Cina, Giappone ed Europa. L’idea che, più di cinquant’anni dopo quella dichiarazione, il mondo aspetti ancora di diventare «multipolare» apparirebbe del tutto balzana se non celasse due messaggi diversi di Mosca a due interlocutori diversi: da un lato, la proposta a Washington di una nuova spartizione del mondo in sfere d’influenza; dall’altro, l’offerta di una sponda politica e finanziaria a chi voglia affrancarsi dalle regole «imperialiste» dettate dagli Stati Uniti. Le due mosse sembrano escludersi a vicenda, ma l’abilità con cui la Russia gioca su più tavoli, anche opposti tra loro, è una delle ragioni della sua sopravvivenza fino a oggi.
Nella forza di attrazione dei Brics, il fronte finanziario gioca un ruolo molto importante. Non sarà sfuggito che l’ambizione di sostituire il Fondo monetario internazionale e di «de-dollarizzare» l’economia mondiale costituisce, al di là delle sparate ideologiche, il Leitmotiv dei vertici Brics. Su entrambi i fronti, la meta è ancora lontana, benché si sia da qualche mese accesa una speranza: con il suo assalto alle istituzioni multilaterali e il sistematico sabotaggio dell’affidabilità americana, Donald Trump sta lavorando al raggiungimento di quegli obiettivi più e meglio di quanto non possano fare gli stessi Brics.
Nonostante il soccorso della Casa Bianca, però, resta assai improbabile che i Brics (o l’Ocs) possano conseguire risultati di rilievo, al di là dell’innegabile successo d’immagine – dovuto tanto alle messe in scena spettacolari con cui i Paesi più deboli cercano di compensare le proprie insufficienze strutturali, quanto all’ingordigia dei media, sempre affamati di qualcosa di sensazionale da mettere sotto i denti. È improbabile che vi riescano soprattutto perché entrambe le organizzazioni sono anche terreni di competizione tra i loro membri, in particolare tra Cina, Russia e India. Questi tre Paesi (ma anche gli altri, in proporzione alla loro forza), avendo interessi e finalità diverse, vorrebbero utilizzare quei forum per i loro scopi, che sono più spesso divergenti che convergenti.
La Cina, pur proclamandosi patrona del «Sud globale», punta a proporsi come sponda alternativa a tutti gli orfani (o futuri orfani) degli Stati Uniti, che si trovino a Nord o a Sud dell’Equatore – all’Europa e al Giappone in primo luogo (che ci riesca, è un altro paio di maniche). La Russia, intenta a cercare disperatamente un accordo con gli americani mentre lancia maledizioni e strali (nella forma moderna di droni) contro gli europei, ha un bisogno vitale di dimostrare di avere ancora molti amici, e soprattutto molti clienti per il suo petrolio invenduto. L’India, dal canto suo, vorrebbe a tutti i costi giocare in una categoria superiore, anche se non ne ha i numeri, e quindi contende alla Cina la leadership simbolica di un «Sud globale» che non esiste. Emblematica, in questo senso, la contrapposizione tra i due Paesi al vertice di Johannesburg dell’agosto 2023, seguita, un mese dopo, dal summit del G20 a New Delhi, dal quale Xi Jinping fu vistosamente assente.
La triangolazione tra Cina, Russia e India non ha dovuto attendere l’apparizione del «Sud globale» per diventare problematica. Russi e indiani nutrono un timore quasi patologico nei confronti della Cina, la quale a sua volta disprezza la Russia e vede l’India come un impiccio; le tensioni con quest’ultima affondano nel tempo e ruotano attorno all’inscindibile binomio Tibet-Kashmir – il casus belli del loro conflitto del 1962 – a cui si aggiunge oggi l’ingombrante presenza della penisola indiana nel bel mezzo di un oceano che Pechino vorrebbe controllare da Malacca a Gibuti.
L’India e la Russia, oltre a condividere l’apprensione per la Cina, vantano una lunga storia di amicizia inaugurata ai tempi della guerra fredda, in particolare a partire proprio dalla guerra del 1962, quando Pechino diede avvio alla sua lunga collaborazione con Rawalpindi (allora capitale del Pakistan); a differenza di allora, però, Mosca ha oggi bisogno di Delhi più di quanto Delhi ne abbia di Mosca. Pur sventolando la bandiera del «Sud», l’India, fin dagli inizi di questo secolo, ha cercato di diversificare le proprie amicizie, in particolare guardando sempre più verso Stati Uniti, Giappone ed Europa. La decisione umorale di Trump di usare la clava dei dazi contro il governo indiano per non avere avallato un suo presunto ruolo nella cessazione della «guerra dei quattro giorni» tra India e Pakistan del maggio scorso ha rialimentato la fiamma del sopito amore tra Mosca e Delhi, spingendo il primo ministro Narendra Modi a enfatizzare a Tianjin le sue manifestazioni di affetto verso Xi Jinping, Putin e tutto il mitico «Sud globale».
Si sarà comunque notato che, prima delle effusioni di Tianjin, Modi aveva fatto tappa a Tokyo, dove Delhi coltiva la speranza di ottenere un’assicurazione sulla vita contro il rischio Cina. In seguito, ha disertato la parata militare di Pechino, dove sfrecciavano quegli stessi aerei che, in dotazione all’esercito pakistano, avevano inflitto una severa lezione all’aviazione indiana nella recente «guerra dei quattro giorni». Infine, appena rientrato in patria, si è premurato di contattare diversi leader europei per garantire il buon esito dell’altro ramo della medesima polizza – resa tanto più urgente dallo schiaffo americano.
Insomma, più si allarga lo sguardo agli altri membri delle due organizzazioni, più le rivalità incrociate, i sospetti e i dispetti vengono a galla. All’interno dell’Ocs siedono, fianco a fianco, New Delhi e Islamabad: basterebbe questo a demolire le architetture ideologiche che vorrebbero farne uno dei pilastri del «nuovo ordine multipolare». Nei Brics allargati, oltre ai rivali storici già ricordati, si sono aggiunti gli Emirati Arabi Uniti e l’Iran, oggi tatticamente riavvicinati dal furore israeliano e dall’imprevedibilità americana, ma tradizionalmente nemici, direttamente o tramite i loro proxies – Houthi yemeniti e movimenti salafiti di varia natura e genere. E poi ci sono l’Etiopia e l’Egitto, che un giorno sì e l’altro no si lanciano torve minacce a proposito della diga Grand Renaissance, costruita sul Nilo Azzurro da Addis Abeba, e che il Cairo ha persino detto di poter bombardare.
Tutto questo dovrebbe essere sufficiente a spiegare perché il «Sud globale» non esista. D’altronde, il «Sud globale» non è altro che la versione riverniciata di un altro fantasma della politica internazionale: il vecchio «Terzo Mondo», un insieme immaginario reso popolare dalla Chiesa cattolica e dalla Cina di Mao dopo la rottura con Mosca, anche se originariamente teorizzato nel 1952 da un intellettuale francese, Alfred Sauvy, a sostegno alla – già all’epoca stantia – «terza via» tra capitalismo e socialismo. Come ai tempi di Filippo Corridoni e Benito Mussolini, gli orfani della lotta di classe si inventavano una nuova contrapposizione, stavolta tra Paesi «proletari» e Paesi «plutocratici»: un’idea che ha fatto fortuna per la sua semplicità, a dispetto però della sua vacuità. E a dispetto anche della sua volubilità, poiché tanto i «Paesi poveri» quanto i «Paesi ricchi» hanno cambiato nel tempo definizioni e composizione.
Per rilanciare questa versione «ricondizionata» del Terzo mondo, si è riesumata persino la «linea Brandt», ovvero il confine disegnato dall’ex cancelliere tedesco Willy Brandt nel 1977 tra il Nord ricco e il Sud povero. A parte le contorsioni cui quella linea doveva ricorrere per evitare gli ostacoli geografici – come l’importuna presenza di Australia e Nuova Zelanda a Sud dell’Equatore – essa collocava tra i Paesi poveri quasi tutti gli attuali emergenti, e tra quelli ricchi l’Unione Sovietica, che si sarebbe invece poi rivelata, come osservò l’economista svedese Anders Åslund, nient’altro che «un Paese del Terzo Mondo ragionevolmente ben sviluppato». Con il tempo, sia il Nord che il Sud di Brandt sono diventati più ricchi; ma, in termini relativi, il Sud si è arricchito più del Nord: non si è ancora giunti alla parità ma, secondo le proiezioni del Fmi per il 2025, il Nord produce il 57,7% della ricchezza mondiale, e il Sud il 42,2%. Le distanze si stanno accorciando.
Insomma, rappresentare la complessità delle relazioni internazionali attraverso una sommaria analogia geografica non è soltanto indice di pigrizia intellettuale; è anche uno dei modi più efficaci per complicare la comprensione di ciò che sta accadendo nel mondo. Proprio il contrario di ciò di cui avremmo bisogno.