Robinson, 12 ottobre 2025
Intervista a Carlo Fontana
La vita di un sovrintendente musicale si muove sul difficile
confine tra l’arte da promuovere e soddisfare e la politica da ammansire. Tanti i protagonisti a cui dare retta: l’amministrazione che lo elegge, il pubblico che segue, la critica che giudica. Poi ci sono i bilanci da rispettare, i soldi da trovare e infine loro: gli artisti, le prime donne, le
«anime di cristallo» che da un momento all’altro rischiano di frantumarsi: «I più fragili sono i cantanti, ma bisogna capire la loro psicologia. Sono divi il cui talento emoziona il pubblico», dice Carlo Fontana che è stato sovrintendente prima al Teatro comunale di Bologna e poi per 15 anni alla Scala. Su quelle esperienze ha scritto una sorta di autobiografia professionale, Sarà l’avventura, edita da il Saggiatore.
Gli chiedo che idea si è fatto di Beatrice Venezi, e delle
polemiche provocate dalla sua nomina a direttrice
musicale del Teatro la Fenice di Venezia: «Non l’ho mai sentita dirigere», risponde con l’aria di voler chiudere il discorso. Un po’ volpe e un po’ leone, per evocare un vecchio adagio machiavelliano. Dopo il lungo periodo alla Scala, Fontana ha ricoperto per un paio d’anni il ruolo di senatore nelle fila dell’Ulivo: «Credevo dimettere la mia competenza a disposizione. La verità è che un intellettuale o un tecnico non contano nulla. Ti giurano che sei indispensabile ma poi sei il primo ad essere sacrificato». Fontana, 78 anni, continua ancora oggi ad occuparsi di consumi e impresa culturale.
«Dopo la parentesi in politica ho capito che ciascuno deve fare il proprio mestiere: il mio è quello di operatore culturale».
Mi sembra una definizione tristissima “operatore culturale”.
«Sarà triste ma è così. Se pensa che sia più glamour mi
definisca “manager della cultura”. In fondo ho sempre dovuto trovare un equilibrio fra conti e istanze degli artisti».
Proprio quell’equilibrio vent’anni fa le è costato il
posto.
«Le ragioni della mie dimissioni a meno di un anno dalla scadenza del mandato furono diverse. Ma tutte confluirono mediaticamente sul conflitto con il maestro Muti. Fu lui a chiedere la mia testa».
Perché l’avrebbe fatto?
«Non ho trovato una spiegazione plausibile e accettabile».
In una lettera il maestro lamentò il suo operato, come se le sue scelte culturali svilissero la parte artistica.
«Il teatro stava attraversando una fase complicata dovuta alle trasformazioni in corso e a una situazione economica difficile. Non si trattava di penalizzare il lato artistico ma di affrontare seriamente i pesantissimi costi. Occorreva trovare un nuovo pubblico e penso di esserci riuscito».
La ricordano come freddo, ambizioso, competente.
«Più che freddo mi definirei un timido. Ambizioso sì.
Competente, mi fa solo che piacere. Il teatro è la mia vita e la competenza l’ho sviluppata vedendo e ascoltando molto. Infine aggiungerei “fortunato”. Per le persone che ho incontrato e che mi hanno dato l’opportunità di imparare e di lavorare al meglio».
Una di queste è stata Paolo Grassi.
«A lui devo tutto».
Come lo ha conosciuto?
«Attraverso Nina Vinchi che fu compagna e poi moglie di Grassi. Nina era amica di mio padre».
Suo padre di cosa si occupava?
«Ha svolto sotto diversi sindaci milanesi il ruolo di capo
di gabinetto. Era un socialista come mio nonno che fu
sindaco di Magenta».
Grassi voleva dire il “Piccolo Teatro”.
«Sì, lo fondò insieme a Giorgio Strehler e Nina Vinchi. Mio padre cercò la Vinchi per chiederle un paio di
biglietti per il Marat-Sade di Peter Weiss. Si giustificò
dicendo che erano per me che amavo tantissimo il teatro. E lei incuriosita disse che Grassi stava cercando un paio di persone da formare. Andò così. Era il 1967. Avevo 20 anni quando cominciai a lavorare per il Piccolo. Vi sono rimasto fino al 1972».
In mezzo si consumò la rottura tra Grassi e Strehler.
«Fu qualcosa di epocale».
Ma senza lacrime.
«Non so se in privato piansero, ma fu una rottura personale e politica».
I loro caratteri contribuirono?
«Erano diversissimi. Severo, altero, un uomo d’ordine, un intellettuale al servizio della collettività, questo fu Grassi. Poteva avere scatti d’ira ed essere permaloso ma era capace come pochi di coinvolgere un giovane in ciò in cui credeva. Per me fu un secondo padre».
Mentre Strehler?
«Aveva il dono di far recitare perfino le pietre ma era la
quintessenza del narcisismo. Pensava che tutto il mondo ruotasse attorno a lui. E quando tornò a dirigere il Piccolo, con Grassi che nel frattempo era andato alla Scala, disse una cosa terribile».
Cosa esattamente?
«Che aveva trovato il Piccolo insozzato. Un’espressione
assurda, offensiva. Non solo nei riguardi di Grassi ma di
tutti coloro che ci lavoravano».
Grassi come reagì?
«Non disse niente. Ricordo una nostra telefonata concitata. Ero deluso e arrabbiato per non aver reagito a quell’insulto. E lui rispose che non si polemizza con i
grandi artisti perché danno emozioni che nessun altro
può dare. Dopo quell’episodio ci siamo persi di vista
per un paio d’anni. È vero anche che il clima culturale era profondamente cambiato. Il Sessantotto, al quale Grassi guardò con sospetto, fu per me un’occasione per sperimentare nuovi linguaggi e contaminarli».
Negli anni Settanta lei diventa sovrintendente al Teatro Comunale di Bologna.
«Fu un periodo straordinario. Contemporaneamente alla nomina bolognese accettai l’incarico di direttore della Biennale musica. Non si spiegherebbe il mio ruolo alla Scala senza le due esperienze alle spalle».
Perché?
«Nei cinque anni a Bologna risanai un teatro malmesso ed ebbi la fortuna di portare alcuni tra i migliori cantanti in circolazione: da Pavarotti a Mirella Freni a Rajna Kabaivanska. Fu un momento magico. E molto della mia carriera successiva lo devo a questi nomi. Si legarono a me e io a loro sotto il segno dell’amicizia».
Però con Pavarotti a un certo punto fu rottura.
«In realtà mi allontanai».
Il motivo?
«Era come diventato un altro. Dopo le sollecitazioni della seconda moglie si aprì al pop, alla musica leggera. Per un artista considerato tra i più grandi tenori del Novecento mi sembrò una decisione azzardata».
Perché?
«Per Luciano quel contesto non funzionava. Come posso dirlo: non c’entrava vocalmente. Quando duettava, per esempio con Bono o Zucchero, si avvertiva che tra quelle voci così diverse non c’era fusione. Mirella Freni mi raccontò che, poco prima di morire, Luciano si raccomandò di essere ricordato solo come cantante d’opera. Detto questo era un uomo di generosità assoluta. Anche a lui devo molto».
Anche lei ha aperto la musica alle contaminazioni.
«Non ho nulla contro il fatto che i linguaggi si parlino e si contaminino. Alla Biennale sperimentai la musica di confine. Alla Scala feci un concerto di Keith Jarrett e misi in scena West Side Story. Oggi è normale ma negli anni Novanta, nel perdurante bigottismo musicale, non era per niente ovvio».
In fondo è quello di cui l’accusava Muti.
«Ci può stare, ma al punto da dichiarare: o me o lui?».
La vostra vicenda mi fa pensare un po’ a quella di Grassi con Strehler.
«C’è qualcosa in effetti che avvicina le due storie».
Cosa ne ha concluso?
«Che i grandi amori quando finiscono è molto raro che si ricompongano. Quella tra Grassi e Strehler è stata un’amicizia fraterna. Ed è finita in un dissidio assoluto.
Per quanto mi riguarda ho benedetto ogni giorno che passava per avere avuto la fortuna di lavorare con un
artista come Muti. Credo che il periodo che abbiamo trascorso alla Scala abbia dato vita a uno dei sodalizi più belli e importanti».
Quindi il rammarico è forte.
«Per me resta qualcosa di inspiegabile».
Ha mai pensato che essendo anche una carica su designazione politica volessero dopo 15 anni accantonarla?
«Ma certo, ero consapevole che non fosse una carica a
vita. Ma il problema sono i modi, le insinuazioni, le
meschinità che nell’accompagnare questa storia l’hanno resa offensiva e umiliante».
Forse c’era anche il fatto che su Milano si stava
ridisegnando il potere politico.
«Questo aspetto venne fuori da una lunga intervista che rilasciai a Natalia Aspesi e per la quale il consiglio di amministrazione della Scala voleva crocifiggermi. Con una battuta efficace Fedele Confalonieri, melomane e berlusconiano, disse: se devo scegliere tra Sacchi e Van Basten, scelgo Van Basten. Essere paragonato a Sacchi lo considerai un complimento».
Ma è vero che le offrirono un milione di euro per le
sue dimissioni?
«Rifiutai, considerandolo un gesto estremamente
offensivo. E poi volevo che le cose fossero chiare».
Non sono mai chiare quando in ballo c’è un potere, grande o piccolo da conquistare. Ma ne valeva la pena?
«Cosa intende?».
Valeva la pena resistere quando tutta Milano sapeva che se ne sarebbe dovuto andare?
«Non era una partita a poker da cui ci si alza quando non si hanno più fiches. Mi ero dato il mandato di cambiare la Scala, di riformarla. E credo di esserci riuscito anche se alla fine ho dovuto mollare. Sono rimasto solo. Una battaglia tra i fantasmi».
Accennava prima al suo incarico alla Biennale musica.
«Fu Paolo Portoghesi a propormelo dopo che Mario
Bortolotto aveva rifiutato. Era il 1983».
L’anno dopo fu realizzato il “Prometeo” di Luigi Nono.
«Ricordo perfettamente. Un progetto al quale lavorava da anni. Nono era pieno di incertezze. Mi confessò di non credere più alla possibilità espressiva dell’opera lirica. Cercava una soluzione sperimentale. E alla fine la trovammo. Anzi la trovò. E davvero fu una delle avventure umane e artistiche per me più entusiasmanti. Facemmo collaborare Massimo Cacciari per i testi, Renzo Piano per la concezione dello spazio, Emilio Vedova per la luce e Claudio Abbado per la direzione dell’opera. Fu un’impresa
spericolata».
Perché?
«Come un giocatore d’azzardo misi quasi l’intero budget, più o meno due miliardi delle vecchie lire, sull’allestimento di quell’opera».
Ci furono polemiche a non finire.
«Vero, ma dopo la prima del 25 settembre 1984 tutta la
critica, italiana e internazionale, riconobbe nel Prometeo un capolavoro del Novecento».
È possibile un confronto artistico tra Abbado e Muti?
«Sono imparagonabili. Entrambi grandissimi. Poi, come accade nelle rivalità, c’è chi si schiera per l’uno e chi per l’altro. Ma loro due hanno perpetuato la tradizione di Toscanini e di Victor de Sabata. Appartengono a un’altra categoria come Sinner e Alcaraz nel tennis».
In quale categoria collocherebbe Beatrice Venezi?
«Come le dicevo non l’ho mai sentita dirigere quindi non sono in grado di dare un giudizio tecnico. Quello che mi sento di dire è che non si offre un incarico di direttore musicale senza prima aver fatto delle prove con l’orchestra. Ricordo che quando nominai Riccardo Chailly a Bologna fu lui a chiedermi di provare un paio di esecuzioni con l’orchestra per capire se si sarebbe creata o no un’intesa».
Secondo lei come finirà la vicenda del Teatro la Fenice?
«Mi pare difficile che si possa conservare il posto di
direttore musicale se l’orchestra rema contro. Bisognava pensarci prima. Se si dà la sensazione di una nomina imposta dall’alto il problema è certo politico. La partita vera si gioca sulla competenza, che ti salva perché c’è o ti porta a fondo perché manca».