La Stampa, 13 ottobre 2025
Mogol: "Sono un socialista e voglio solo fare del bene La mia canzone sui femminicidi cambierà i maschi"
L’anno prossimo compirà novant’anni, fa acquagym a giorni alterni, mangia poco, va a cavallo, insegna nella scuola di musica che ha fondato, il Cet, ha scritto più di duemila canzoni, ha amato moltissime donne e due mogli, non vuole essere chiamato paroliere ma poeta, spera di essere ricordato per la sua onestà, prega, crede, guarda il calcio tutte le sere. “Il mio mestiere è vivere la vita”, ha scritto nell’unica canzone d’amore della musica leggera italiana che parla di amicizia. La cantava Lucio Battisti, che senza di lui non avrebbe mai cantato: «Lo convinsi io, lui non voleva: si sentiva un compositore e basta. Anni dopo mi disse che doveva tutto a un pazzo, che ero io», dice alla Stampa Mogol, pseudonimo che nel 1959 gli assegnò la Siae, e che dal 2006 è parte del suo cognome anche all’anagrafe, dove risulta Giulio Rapetti Mogol. Milanese. Mamma e sorella morte per un cancro all’utero, tutte e due a 64 anni; papà editore di dischi.
Il 14 ottobre esce per Salani Senza paura, la sua prima autobiografia, che racconta la vita dietro e dentro le canzoni, e mette in chiaro che senza di lui la storia della musica italiana sarebbe stata diversa: Mogol ha scritturato per primo Giorgio Gaber, ha convinto Mina a cantare Il cielo in una stanza, ha appoggiato Battisti quando ha rifiutato i produttori dei Beatles, ha riscritto Space Oddity di David Bowie, che se ne innamorò tanto da cantarla in italiano, ha tradotto Bob Dylan e ha smesso quando non è più riuscito a capire cosa scrivesse, nonostante lui lo pregasse di continuare a lavorare insieme (chi altri ha detto di no a Bob Dylan? Diane Keaton per fare una scena in cui doveva piangere e ridere insieme, in Tutto può succedere, ascoltava Bob Dylan).
Mogol, come si fa il pop?
«Senza mai pensare di indirizzare le masse. Io ho sempre e solo pensato di farne parte».
Com’è il cuore della gente?
«Non ce ne sono due uguali. Ci unisce far del bene agli altri: è il senso della vita».
Chi sono gli altri?
«Più persone possibile».
Anche gli immigrati?
«Certo, ma non possiamo accogliere tutto il mondo».
Quelli che non ci stanno li mandiamo nei cpr in Albania?
«Non ci vedo niente di male».
Sono prigioni.
«No, sono centri in cui persone che altrimenti morirebbero, mangiano e lavorano. L’Albania ci guadagna e l’Italia fa del bene».
Perché è salito sul palco della festa di Fratelli d’Italia, a settembre?
«Perché sono grande amico di Gasparri, che conosco da quando ha iniziato a fare politica e siamo come fratelli, e di Tajani, che conosco da meno ma che ammiro. Sono due persone buone, con criterio, fanno la carità. Mi piacciono».
Quindi è lei quello di destra, non Battisti.
«Io sono un socialista. L’ultima volta ho votato a destra. Lucio non credo abbia mai votato. Durante una cena da Caterina Caselli, mentre Craxi raccontava aneddoti di palazzo, si girò verso sua moglie Grazia e le disse “ahò ma è mejo de Dallas!”. La politica non lo interessava, e non ne abbiamo mai parlato».
No? Neanche quando lo accusavano di essere neofascista e di finanziare Ordine Nuovo?
«E poco dopo la polizia trovò la sua intera discografia nel covo delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso. Comunque no, non abbiamo mai parlato di politica. Lui parlava poco in generale, anche con me, e di sé stesso non diceva mai niente. Ascoltava gli altri con attenzione».
Come lo convinse ad andare da Milano a Roma a cavallo?
«Dicendogli che gli avrei insegnato tutto io. E così andò e fu bellissimo. Magari lo rifaccio, ho 9 cavalli, devo allenarmi».
Avete mai litigato?
«No, neanche quando abbiamo deciso di separarci. Io non ho mai litigato con nessuno».
Lei è un moderato?
«Mio padre lo era. Io cerco di riflettere. Non voglio essere vittima di nessuna reazione».
Non ha nemici?
«C’è una persona che mi odia, e non dirò mai a nessuno chi è, per la quale prego. Io prego solo per ringraziare, mai per chiedere».
Ha avuto tutto?
«Ho avuto fortuna. Tanta».
Talento?
«Anche, ma averlo non è raro. Basta studiare, fare pratica e si scopre qual è. Ho cominciato a scrivere canzoni perché per fare le versioni italiane dei pezzi americani mi pagavano poco e i diritti li prendevano altri. A volte ne scrivevo 3 al giorno».
Un juke box!
«Sì, ma sempre rigoroso. Non bisogna mai essere indulgenti nella valutazione del proprio lavoro: si può sempre fare meglio, o almeno così si deve pensare».
La sua più grande fortuna?
«Ho ricevuto più di quanto ho dato».
Per questo scrive che avrebbe fatto il medico se non avesse scritto canzoni?
«No, ma ho cominciato a studiare la prevenzione primaria quando avevo 18 anni, perché non volevo ammalarmi. Poi conobbi Giovanni Scapagnini, professore ordinario di Nutrizione Clinica, che è il numero uno in Europa: siamo stati insieme un anno, mi ha insegnato tutto quello che so su come l’alimentazione può aiutarci a invecchiare in salute. Ho scritto un libro che su Amazon è andato a ruba anche perché è facilissimo da leggere essendo scritto con caratteri 5 volte più grandi del normale, si intitola La Rinascita, insegna a non ammalarsi».
E come si fa?
«Prima di tutto, controllando il pensiero: la mente è sovrana nel determinare le malattie».
Lei scrive: vorrei morire affondando in un mare di innocenza. Ha dei sensi di colpa?
«No. L’ho scritto perché l’ innocenza è la cosa più bella del mondo. Gli animali sono innocenti».
Come lo fa il bene?
«Con le canzoni. Ne ho scritta una sul femminicidio: c’è una vittima che racconta la sua storia ed è così potente che aiuterà ad arginare questo fenomeno atroce, perché quando sentiranno i pensieri di una donna uccisa, gli uomini rifletteranno davvero».
Una canzone può avere così tanto potere?
«Questa sì, mi creda. Giusy Ferreri la canta magnificamente. Non so quando uscirà, è tutto nelle mani del mio amico Gianmarco Mazzi (sottosegretario alla Cultura, ndr)».
Qual è stata la sua più grande sofferenza?
«Forse, la volta che mio padre mi impedì di depositare Quando Quando Quando, che avevo scritto con Alberto Testa, perché avevo già un pezzo che sarebbe andato a Sanremo, e non voleva che strafacessi. Così, quella canzone risulta opera di Tony Renis e Testa».
C’è una canzone che avrebbe voluto scrivere?
«Ma le pare?».
Non invidia neanche Let it be?
«Sarebbe disgustoso se, con tutto quello che ho avuto, desiderassi qualcosa di altri».
Con le donne non è stato altrettanto moderato.
«Mi sono sempre piaciute. Le ho amate e, soprattutto, le ho ammirate. È stato per non dispiacere a una donna, Cristine Leroux che, anche se Battisti non mi piacque la prima volta che mi fece ascoltare dei suoi brani, gli dissi di tornare a trovarmi: era stata lei a portarlo da me. Mi sono innamorato sempre di ragazze anticonvenzionali, che vivevano la loro vita come io vivevo la mia».
Per Dalla e Morandi ha scritto una canzone che dice: «Vita in te ci credo».
«Tocca un tasto dolente. Nella versione originale, che scrissi con Mario Lavezzi, al posto di “Vita”, c’era “Cara”, perché raccontavamo di una donna che non sapeva difendersi ed era così innocente da dire cose che la danneggiavano. Ma Dalla e Morandi vollero cambiarla: l’avrebbero cantata solo a quella condizione e io accettai, ma la canzone ne soffrì e perse in intensità».
Il primo ricordo felice che le viene in mente?
«Quando a Boston in una scuola mi ritrovai su un palchetto davanti a 120 bimbi americani che cantavano 7e40 in italiano. L’avevano scelta tra altre 20 e studiata per un mese».
Chi è la più grande interprete italiana?
«Fiorella Mannoia».
E Mina?
«Mina è stata la più grande quando nell’interpretazione non contava anche la credibilità del personaggio. Mannoia è più attuale. A Mina sono più affezionato, anche se non la sento da dieci anni».
Davvero ha scritto Emozioni in venti minuti?
«La prima parte. Poi io e mia moglie dovevamo partire, lei aveva fretta di arrivare dai suoi, e per tutto il viaggio pensai alle parole della seconda parte, e quando arrivammo a destinazione, 250 km dopo, la buttai giù in due ore nella cameretta dove avrebbero dormito i miei figli».
La musica italiana contemporanea le piace?
«Non sono un critico».
Va bene, non le piace.
«Ma no,è che non ascolto la radio, ho perso l’abitudine».
Sanremo lo guarda?
«Non posso, ci sono le partite».