repubblica.it, 13 ottobre 2025
Intervista a Enzo Iacchetti
Enzino Iacchetti è un uomo tenero e a volte triste, nel cuore continua a scrivere poesie bonsai, è un “malincomico” che ha appena messo la sua vita dentro un libro assai autunnale, 25 minuti di felicità (Bompiani). Ma quando si spegne la telecamera, quello che si accende è parecchio complicato. E c’è poco da ridere.
Iacchetti, sa che il suo libro lascia dentro un po’ di magone?
«Forse è lo stesso che provo io. Vorrei che i lettori capissero quanto sono fragile. Per carità, sono stato fortunato, ho avuto successo dopo una gavetta lunghissima, però mi si uccide con poco».
Insicurezza?
«Tanta. Domando di continuo “com’è andata?”, e ho sempre paura che mi rispondano “benissimo” e poi si voltino scuotendo la testa. Forse, mi stanno raccontando bugie da trent’anni e passa. Ho preso tante botte e mi sono sempre rialzato».
Le risate finte di Striscia la notizia non sono, forse, il sottofondo della tragedia del vivere?
«A volte coprono tanta sofferenza. Di sicuro, in tutto questo tempo non abbiamo pensato solo a far ridere. Fino a un paio di anni fa, se dicevi “striscia” ti rispondevano tutti “la notizia”, adesso ti rispondono “di Gaza”: che orrore di mondo, mi spaventa ogni cosa».
Ora si può sperare davvero nella pace?
«Sarebbe molto bello, però non ci credo. Questo è un accordo fatto da Trump e Israele, e ho detto tutto: le sofferenze di quei poveri palestinesi rimangono sullo sfondo: il progetto di Netanyahu era sterminarli tutti».
Quella lite in diretta con Eyal Mizrahi?
«È stata una trappola. Quel tizio si era detto nemico di Netanyahu, invece è un provocatore di quelli che pensano che 20 mila bambini trucidati siano 20 mila piccoli terroristi che è meglio uccidere subito. Mi ripeteva “definisci bambino”, non ci ho visto più. Non è una questione di ideologia ma di umanità».
Il suo libro è anche pieno di amore e di amici.
«Gli amici mi hanno salvato la vita, invece con le donne sono stato un disastro. Ho amato tre o quattro volte in tutto, più un’altra che non avevo mai detto».
Platonica, eppure formidabile.
«Mi sono innamorato di Anna Marchesini la prima volta che l’ho vista in tivù, e dopo qualche anno mi proposero di partecipare con lei al programma Milano-Roma, quello dove si viaggiava in auto per otto ore in due, e si parlava di tutto. Lei arrivò e disse che si aspettava Rita Levi Montalcini. Ci sedemmo, il tempo passava. Forse, Anna qualcosa la intuì. Io sbagliavo marcia apposta per poterle sfiorare la mano, come un quindicenne al cinema. Mi fermai per raccoglierle delle ginestre sull’autostrada, e all’autogrill le presi una piccola torta. Anna fu di una dolcezza infinita. Non le chiesi il numero di telefono, ero timido ed eravamo entrambi sposati. All’arrivo, mi abbracciò in un modo che non ho dimenticato. Non la rividi mai più, poi lei morì. Nella prossima vita le chiederò di sposarmi».
Nel libro ci sono tanti maestri.
«Giorgio Gaber era pieno di grazia, era gentile con tutti, un uomo delicatissimo ma, sul palco, incazzato nero. Voleva apparire come la persona più inutile del mondo, invece era un mostro di bravura. Si metteva a volare, però senza disturbare».
Dario Fo le ha fatto da regista teatrale.
«Diceva: “Con le braccia larghe che hai, mettiti così, fai così”, e mimando il gesto ne veniva fuori un’opera d’arte. Poi, tu ripetevi quei movimenti ed eri soltanto uno che spalanca le braccia, però al pubblico mancava la prima parte della storia e apprezzava lo stesso».
Perché ha scritto questo libro?
«Per stare in pace con mio padre calzolaio, che non voleva che io diventassi un artista. Siamo stati due egoisti, e io provo un forte senso di colpa. Spero sempre di sognarlo, ora che finalmente gli ho detto tutto».
Ci racconti di quando le tiravano la pizza.
«C’era questo ristorante a Milano, prima di piazzale Loreto, si chiamava “La Bellingereta”. Il proprietario era un sadico: offriva 500 mila lire, nell’84 una signora cifra se si considera che ogni serata al Derby me la pagavano 12 mila e 500 lire, a chiunque riuscisse a resistere sul palco per più di un quarto d’ora. Il pubblico tirava pezzi di pizza addosso agli artisti, ma io riuscii a non smettere, anzi chiesi se potevano tirarmi pure il prosciutto. Tornai a casa, cioè nella stanza che dividevo con Giobbe Covatta, con i pezzi di pizza dentro un sacchetto: la nostra cena».
Accadde ancora?
«Una seconda volta. Noi lo chiamavano il cabaret nero. Accettai, a patto che non mi tirassero più le pizze, troppo umiliante. Arrivarono monete in testa e alla fine ne raccolsi per 4 mila e 200 lire. A casa, Giobbe si lamentò: “Ma come, stasera niente cena?”. Con le 4 mila lire lo portai in pizzeria».
Lei scrive: “Sono bravo a fingere che va tutto bene”.
«Per forza, altrimenti se dici la verità poi ti tocca spiegarla, il tempo passa e perdi il treno. E siamo proprio sicuri che agli altri importi davvero come stai?».
Da dove arriva tutta questa tristezza?
«Non lo so, forse dall’aria del lago dove abito, forse dal fatto che se una vita umana media dura, in termini di tempi universali, non più di mezz’ora, io che ho 73 anni ne ho già vissuti 25 minuti: cioè il titolo del libro. Però non voglio dire tutto, non ho mai parlato delle mie malattie e non lo farò neppure adesso, e anche i pozzi regalati in Africa me li sono tenuti a lungo per me: non si mettono i manifesti al bene».
Ma lei, Iacchetti, che tipo è?
«Sono uno che spera di divertire la gente: prima la osservo, la ascolto e poi provo a cavarne qualcosa. Non uscirei mai di casa, e mi sento un po’ solo».
Ma come, e l’amore?
«Passato, finito. Però sarebbe bello, la sera, ricevere una carezza prima di addormentarmi, invece la casa rimbomba dei miei passi. Ho amato il lavoro fino a oggi, fino a domani e fino a sempre, però ho sacrificato molto del resto, pur cercando di essere una brava persona».
Cos’è stato, il successo tardivo?
«A 40 anni, grazie al Costanzo Show mi esplose il bordello in testa. Bellissimo, ma ero solo anche in quel momento. E lo sono stato dopo, quando la Rai mi offrì il doppio perché lasciassi Striscia. Sono fedele e sono rimasto, anche perché la tivù di Stato era, ed è, molto più politicizzata di Mediaset. E lo dice uno che ha amato Berlinguer più di chiunque».
Lei cosa sognava?
«Di poter fare l’artista brillante per mestiere: se mi avessero offerto 2 mila euro al mese come uno stipendio normale, avrei firmato al volo. Ho avuto molto di più, in ogni senso, però sono più insicuro di quando ho cominciato. Davvero potevo aprire una tabaccheria a due passi dalla Svizzera e finirla lì. Ho fatto anche il cameriere in un ristorante di montagna».
Il bilancio, alla fine, qual è?
«Che a volte sei contento, ma poi ti ritrovi solo come un pirla. Ti senti avvolto in una nuvola di zucchero filato, però se lo assaggi ha un sapore amaro. A casa, mi capita di voltarmi di colpo e non trovare mai nessuno. E poi sono insonne: questo non favorisce la serenità».
Eppure, lei nel libro dice che scrivere calma la confusione.
«Ho appeno scoperto che il premio Nobel per la letteratura è pubblicato dal mio stesso editore: non male, quel collega ungherese. Magari l’anno prossimo tocca a me».