Corriere della Sera, 13 ottobre 2025
Il disordine economico globale
I palazzi, gli uffici, i funzionari, sono gli stessi. Le liturgie, identiche: da oggi, a Washington, con gli incontri dei vice ministri dell’economia e dei vice governatori delle banche centrali, si apre una settimana di lavori annuali del Fondo Monetario/Banca Mondiale.
U na settimana di lavori uguale a quelle che abbiamo visto per alcuni decenni, corredata da previsioni economiche per 196 Stati membri; comunicati, conferenze stampa. Eppure, dietro questa apparente continuità, per la prima volta in 80 anni, dal dicembre del 1945, quando ci furono i primi incontri annuali – Fmi per regolare contesti macroeconomici e monetari, Banca Mondiale per lo sviluppo – tutto è cambiato. Nei corridoi di questi stessi palazzi, imponenti, funzionari che leggono con lucidità dati, statistiche e notizie hanno già preso atto che il modello che poggiava sul multilateralismo economico disegnato da un’America che guardava in avanti, oltre le macerie della Seconda guerra mondiale, non c’è più. Si vede, al suo posto, un’onda lunga «individualista» che riguarda e riguarderà tutti. Anche l’Italia e il nostro governo, con una sfida implicita: varare riforme e prendere misure nuove per giocare d’anticipo su un periodo dominato da imprevedibilità e incertezze.
Prepariamoci dunque, in questa settimana che si apre davanti a noi, a capire due cose. La prima, fino a che punto i politici prenderanno atto della discontinuità in corso. La seconda, più rilevante: ci sarà un nuovo modello per accompagnare l’apparente disordine in cui ci troviamo? È evidente che almeno per ora l’America di Trump ha abdicato al suo ruolo di regia macroeconomica privilegiando alla responsabilità multilaterale un’introspezione nazionale. In pochi mesi, con la nuova amministrazione, il vecchio ordine è stato cancellato. Tariffe, aggressività, provocazioni, contraddizioni, chiusura (100.000 dollari per un visto di lavoro?), scardinamento dell’ordine precedente anche nelle sue istituzioni (vedi la Wto), un indebolimento rapido e marcato del dollaro, l’assedio alla Federal Reserve, la forzatura sulle criptovalute (forse con interesse privato?) con un suo derivato, lo «stablecoin», su cui punta l’amministrazione per finanziare il massiccio debito americano e gettare le fondamenta per un «decoupling» da dipendenze (cinesi o di mercato) che potrebbero spingere al rialzo i tassi a lunga. Sono questi gli elementi principali che hanno segnato l’ingresso nell’era dell’incertezza e della transizione.
La sfida di oggi in fondo, non è dissimile da quella di ottanta anni fa. Allora gli Stati Uniti d’America garantirono il passaggio da un’impostazione economica antica, modellata sulle esigenze dell’impero coloniale britannico a un’impostazione globale aperta che, a parte qualche singhiozzo, ci ha dato molti decenni di pace, crescita economica e prosperità. Oggi, con una geopolitica in evoluzione, con l’intelligenza artificiale che oltre alle nostre abitudini rivoluzionerà i sistemi produttivi, con una generazione di plurimiliardari onnipotenti – e legati alla Casa Bianca – che immaginano la vita su Marte, cercano l’immortalità e investono centinaia di miliardi, una pausa sui vecchi metodi potrebbe anche starci. E i mercati azionari sembrano crederci. Ma per ora nessuno è pronto a darci un nuovo modello. Non l’America, tantomeno la Cina (che ci prova) – o l’Europa, lontana dal processo unitario e con due dei suoi pilastri, Francia e Germania, in difficoltà.
In attesa di una nuova visione strategica coerente, prevale la tattica. Ci si adegua all’introspezione nazionale, reagendo alle sfide più immediate. Per l’Italia sono chiare. Sappiamo che vi è la necessità di riforme, di adeguare ad esempio i livelli salariali quanto meno a quelli dei vicini europei (per non parlare dell’America) che ci sottraggono risorse umane chiave per il nostro futuro. Affrontiamo con decisione e creatività mirate interne ed esterne il gravissimo problema demografico, che mette a rischio le prospettive di crescita e vitalità del nostro Paese. Rispondiamo alla miopia di un sindacato (e un’opposizione) che paralizzano la Nazione rifugiandosi sull’esterno invece che, responsabilmente, contribuire a risolvere problematiche interne. Cerchiamo di riprodurre per il Sud il miracolo della «Fascia del Sole» americana degli anni Ottanta. Capitalizziamo sul nostro eccellente know-how medico per attirare il «turismo sanitario» forza trainante per l’economia moderna. E ripensiamo a Maynard Keynes, uno dei padri di quel nuovo ordine economico multilaterale negoziato a Bretton Woods a partire dal 1944. Ragionando sui salari era ossessionato da una preoccupazione: non voleva che diminuissero in termini reali. Già nella sua Teoria Generale implorava che ci fosse quanto meno una stabilità di compensi perché’ una riduzione dei salari in termini reali avrebbe diminuito il reddito disponibile, i consumi e la domanda aggregata – che nell’economia contemporanea è il traino principale alla crescita. Questo adeguamento o tenuta dei salari, rassicurava Keynes, avrebbe più che compensato i benefici per l’output derivanti da un minor costo del lavoro. Avrebbe voluto un Fondo Monetario Internazionale ancora più incisivo e potente, con una valuta autonoma di riferimento, anche per evitare pressioni deflazionistiche. Ma non gli riuscì e si adeguò al dollaro come valuta di riferimento. E morì prima della rottura, nel 1971, degli accordi del ‘44 che fissavano la parità del dollaro all’oro. Tornando a noi, se l’incertezza dilaga, il tempo corre. L’impatto positivo del Pnrr si esaurirà già l’anno prossimo e in questa fase di incertezza multilaterale la Nazione deve accompagnare imprenditori e forza lavoro che in tempi difficili hanno già dimostrato e dimostrano di poter essere all’avanguardia, di poter competere sui mercati globali con produzioni ad altissimo contenuto tecnologico, di essere pronti al sacrificio. In questa fase di incertezza globale, l’Italia potrebbe, per la sua innata creatività, flessibilità, resilienza, fare, come sta già facendo, meglio di altri. Aiutiamola a continuare.