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 2025  ottobre 13 Lunedì calendario

Il piano di Difesa Ue. Chi pagherà il riarmo?

Nell’ultimo vertice della Nato, che si è tenuto nel giugno scorso all’Aia, i 32 capi di Stato e di governo hanno deciso di portare dal 2 al 5% del Pil l’ammontare della spesa militare entro il 2035. La soglia del 5% è divisa in due parti: l’1,5% riguarda infrastrutture, telecomunicazioni, cybersicurezza, mentre il 3,5% riguarda la spesa per gli armamenti. È dunque quest’ultimo il numero su cui ragionare: significa passare, in dieci anni, dagli attuali 1.451 miliardi di dollari (dati Nato riferiti al 2024) a circa 1.750 miliardi di dollari. Vuol dire che i Paesi membri dovranno aumentare la percentuale di spesa destinata alla difesa. Fanno eccezione gli Stati Uniti, la Polonia e i Paesi Baltici, che il 3,5% già lo raggiungono. A meno che non decidano volontariamente di aumentare la spesa per ragioni legate alla loro sicurezza interna, come sta facendo per esempio la Polonia.
Unione europea: il prezzo
Nel 2024 i Paesi Ue hanno destinato 362 miliardi di dollari alla Difesa, una somma pari all’1,9% del Pil. Per arrivare al 3,5% bisognerà salire più o meno a quota 600 miliardi. Sulla base dei valori correnti, dunque, andranno aggiunti nei prossimi dieci anni circa 240 miliardi di dollari; per l’Italia sono 34 miliardi in più. Ma a che cosa servono tutte queste risorse aggiuntive? Dal vertice di Vilnius del 2023 in poi, i generali della Nato e dei vari Paesi hanno elaborato un piano dettagliato che prevede il potenziamento di cinque volte della difesa aerea, con i caccia, le batterie antimissili, i droni; il rafforzamento dei battaglioni di manovra con l’aumento delle armi a lunga gittata; la logistica. E ogni Paese dovrà contribuire, aumentando le spese militari e quindi i mezzi da mettere a disposizione dell’Alleanza. Va ricordato che nel 2029 i Paesi Nato si riuniranno per decidere se confermare o meno questo piano. Per altro nel 2029 Donald Trump, che ha imposto l’aggravio delle spese per gli europei, avrà chiuso il suo mandato alla Casa Bianca.
Il piano di Bruxelles
La strategia studiata dalla Commissione europea corre su un binario parallelo: poiché non si potrà fare a meno della presenza Usa ancora per diversi anni, è necessario costruire un pilastro europeo che possa contare di più nelle decisioni politiche e militari della Nato. Su questa premessa politica si è innestato il progetto Readiness 2030, entrato in vigore il 29 maggio, che spinge gli europei a investire nella Difesa in quattro anni anziché i dieci previsti dalla Nato. Una maggiore velocità dettata dall’urgenza: abbiamo una minaccia alle porte, sistemi di difesa tecnologicamente arretrati e gli stock di alcuni Paesi svuotati a causa degli aiuti all’Ucraina. Tradotto in euro comporterebbe una spesa totale di 800 miliardi. In realtà gli unici soldi disponibili a breve sono i 150 miliardi del fondo Safe (Security action for Europe), che la Commissione recupererà sul mercato per prestarli con un basso tasso di interesse ai governi che ne faranno richiesta. Il prestito dovrà essere estinto in 45 anni.
Condizioni del prestito
Gli armamenti da acquistare sono quelli definiti dalla Nato, puntando particolarmente sulla difesa aerea, e i singoli Paesi dovranno procedere agli investimenti almeno insieme ad un altro Stato europeo. Inoltre: il 65% dei componenti di ogni prodotto deve essere costruito in un Paese europeo. Finora hanno chiesto di utilizzare i fondi Safe 19 governi, tra i quali l’Italia, ed entro novembre dovranno presentare i progetti dettagliati a Bruxelles. Il Paese più attivo è la Danimarca che ha ipotecato 46,7 miliardi; segue la Polonia con 43,7 miliardi. L’Italia è sesta, con 14,9 miliardi di euro. La norma dunque pone un argine all’acquisto di armamenti made in Usa. Negli ultimi 4 anni infatti il 63% delle armi comprate dai Paesi Ue sono state fornite dagli Usa, come ha notato Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività. Nelle prossime settimane la Commissione presenterà anche un aggiornamento della strategia con il muro antidroni sul fronte Est. Ma dove si vanno a trovare i 650 miliardi che mancano per arrivare agli 800 del piano von der Leyen? Al momento ci sono solo ipotesi.
Sforamento del patto di stabilità
Per raggiungere l’obiettivo del 3,5% fissato dalla Nato, i Paesi Ue che oggi spendono in media 1,9%-2% di Pil potrebbero essere costretti a sottrarre risorse a sanità, pensioni, istruzione e così via, oppure aumentare il deficit, rischiando, però, di sforare il patto di stabilità, ora fissato al 3% del Pil. Per uscire da questa strettoia la Commissione offre la possibilità di oltrepassare il tetto dell’1,5%. In pratica Bruxelles consente di arrivare fino al 4,5% per finanziare la spesa per gli armamenti aumentando l’indebitamento senza toccare gli altri capitoli del bilancio, e senza finire in procedura di infrazione. Una clausola di salvaguardia che varrà quattro anni. Secondo le stime di Bruxelles, se tutti i Paesi Ue adotteranno questa clausola, se decideranno di aumentare la spesa per la Difesa in quattro anni, se alcuni di loro volessero spendere di più del 3,5% fissato dalla Nato (vedi Polonia, Germania, Baltici), si potrebbe arrivare ad una spesa aggiuntiva pari a 650 miliardi di euro.
Riassumendo: i Paesi Ue per riarmarsi possono attingere ai 150 miliardi di prestito, e, volendo, sforare il tetto del deficit.
La dipendenza Usa e lo spreco Ue
Si parte da un quadro pesantemente condizionato dai contratti conclusi negli anni scorsi con le industrie americane. Secondo le cifre pubblicate dall’International Institute for Strategic Studies’s sono made in Usail 46% dei jet da combattimento; il 42% dei sistemi missilistici; il 24% dei veicoli blindati; il 23% dell’artiglieria. Negli ultimi cinque anni Germania, Regno Unito e Italia si sono rivolti più al mercato americano che a quello europeo. Fa eccezione solo la Francia. Una dipendenza che deriva anche dalla qualità delle forniture: la tecnologia più avanzata proviene dalle industrie americane. Nel breve-medio termine dunque non è realistico immaginare che i Paesi europei possano fare a meno delle industrie americane. Quello che i governi invece devono fare con urgenza sono due cose: 1) eliminare sovrapposizioni e duplicazioni; 2) spingere le industrie europee verso un maggior coordinamento. Secondo studi condotti dal Parlamento europeo «la mancanza di cooperazione nel campo della Difesa comporta uno spreco stimato tra i 25 e i 100 miliardi di euro all’anno». Stando al rapporto The Military Balance 2025, nell’Unione europea sono operativi 13 versioni di carri armati, mentre negli Stati Uniti ce n’è una sola; disponiamo di 14 modelli di caccia, gli Usa ne hanno sei. Sarebbe necessaria una strategia comune tra i diversi Paesi. Ma è un percorso lungo e, di fatto, siamo solo all’inizio.
La lentezza dei governi
Le aziende del settore Difesa corrono: quelle francesi e tedesche si sono alleate per fabbricare carri armati e blindati da destinare agli eserciti dei loro Paesi. Anche l’Italia con Leonardo (società controllata al 30% dal ministero dell’Economia) ha concluso diverse joint-ventures: con la tedesca Rheinmetall per la produzione di carri e blindati; con i turchi di Baykar per la costruzione di droni; con i britannici Bae Systems e con Airbus per i missili; con il gruppo Eurofighter per i caccia; con i francesi di Thales per lo Spazio. L’orologio della politica però corre più lento. Secondo il generale Aurelio Colagrande, vice Deputy Supreme Allied Commander Transformation della Nato: «La cosa importante è che si contenga la frammentazione e, in ogni caso, che i mezzi, gli strumenti messi a nostra disposizione, siano compatibili tra loro». Come dire: non sarà facile eliminare la concorrenza tra le imprese. Quanto ai governi: sarebbe opportuno spiegare con la massima trasparenza all’opinione pubblica le ragioni che impongono di aderire al piano di riarmo. E come verranno spese tutte queste risorse.