il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2025
Stipendi d’oro nella P.A. la stretta resta bloccata
Il messaggio più duro è alla fine della nota di una pagina. “Si ritiene opportuno – scrivono gli uffici della Funzione pubblica – al fine di evitare disparità di trattamento ovvero riconoscimenti non in linea con le iniziative che saranno adottate, soprassedere allo stato alla rideterminazione del trattamento economico”. È un avviso a tutte le amministrazioni a evitare fughe in avanti sugli stipendi dei dirigenti pubblici, dopo che la Corte costituzionale il 28 luglio scorso ha bocciato il tetto dei 240 mila euro annui voluto nel 2014 dal governo Renzi. Peccato che quella nota non sia mai arrivata e sia bloccata a Palazzo Chigi.
Da settimane un bel pezzo di alta burocrazia pubblica, desiderosa di vedersi rimpinguato lo stipendio, sogna il colpaccio. La nota, che il Fatto ha potuto consultare, è una circolare preparata dagli uffici del ministro della P.A. Paolo Zangrillo (FI), stilata dopo che i vertici dell’Inps avevano tentato di adeguarsi automaticamente al nuovo tetto vigente, parametrato sul primo presidente di Cassazione, che ora è di 311 mila euro. L’idea, caldeggiata dalla direttrice generale Valeria Vittimberga (vicina al braccio destro di Meloni, Giovanbattista Fazzolari), era di iniziare con i premi di risultato dello scorso anno per tutti e 40 i direttori centrali dell’ente. La mossa ha provocato l’incazzatura dello stesso Zangrillo, che ha chiesto spiegazioni dopo la fuga di notizie, e non è piaciuta nemmeno al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
È il segnale però che si rischia il liberi tutti. La sentenza della Corte costituzionale – scritta peraltro dall’ex consigliere giuridico di Meloni, Saverio Marini, che la premier ha voluto a tutti i costi alla Consulta – affida a un decreto di Palazzo Chigi, in gergo tecnico un “Dpcm”, la responsabilità di fissare il nuovo tetto. Dpcm che però non è ancora arrivato. Nel frattempo molti grand commis di ministeri ed enti ritengono la sentenza immediatamente applicabile e quindi il tetto può salire subito.
La nota di Zangrillo prova a fare chiarezza, innanzitutto ricordando che la sentenza “non è retroattiva”, e quindi eventuali adeguamenti devono partire da luglio e, “nelle more dei successivi provvedimenti, anche normativi, che verranno adottati (il famoso dpcm, ndr), in forma frazionata, tenuto conto delle mensilità residue per l’anno corrente”. Secondo il ministero del forzista, però, il calcolo della differenza spettante tra il vecchio tetto e il nuovo di 311 mila euro riguarderà solo le figure che prima del 2014 prendevano più dei 240 mila euro e si sono quindi viste decurtare lo stipendio. Potenzialmente in questa situazione ci sarebbero decine di posizioni dirigenziali, ma la formulazione della nota – che cita il fondo ammortamento dei titoli di Stato, dove oggi vanno riversate le eccedenze di stipendio e che in molti ministeri non è capiente – sembra limitare la decisione a una dozzina di figure apicali di alto livello, almeno nelle intenzioni del ministero. D’altronde è la stessa cifra fornita da Zangrillo in un’intervista a settembre: in pratica, vertici di polizia e forze armate, presidenti di Authority ed enti pubblici e poco altro.
Per chi invece stava sotto i 240 mila euro, la nota spiega che nulla si può fare finché non sarà il governo a esprimersi e comunque “nell’ambito delle risorse stanziate per le retribuzioni del personale in base alle disposizioni legislative e contrattuali vigenti, previa comunicazione al Dipartimento della Funzione pubblica”.
Come detto, però, della nota si sarebbero perse le tracce nel suo passaggio tra il Tesoro – alla Ragioneria dello Stato – e Palazzo Chigi, dove sembrerebbe essersi arenata, non è chiaro se per resistenze interne della burocrazia o per la presunta volontà di dare un’ulteriore stretta. Meloni non pare intenzionata a passare, in periodo di elezioni regionali, per quella che alza stipendi da 10 mila euro netti al mese, ma è pur vero che la sentenza va applicata e lo stallo aiuta chi vuole procedere in autonomia. Tanto più che i primi ad adeguarsi sono stati gli stessi giudici della Consulta, il cui stipendio è calcolato in una volta e mezzo quello del primo presidente di Cassazione ed è quindi salito di 100 mila euro (a 467 mila euro). Possono farlo perché sono un organo costituzionale. Se continua lo stallo, però, rischiano di essere in discreta compagnia.