Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 11 Sabato calendario

La vita intima è sempre uno scandalo. Lalla Romano pagò per averla raccontata

Naturalmente sono molto contenta quando qualcuno ama i miei libri, ha detto Lalla Romano a Vittorio Sereni che la intervistava nel 1968, «ma ho sempre l’impressione che poi mi giudichino non in quanto scrittrice ma in quanto persona – mondo morale, ecc.– molto migliore di quello che io sono. Mentre sfugge sempre qualcosa di mio che è una forma di senso critico, di ironia, magari di visione non troppo dolce delle cose». Nel 1968 Lalla Romano era una scrittrice riconosciuta, non ancora baciata dal Premio Strega, passata dalla poesia alla prosa, e trattata dalla critica con benevolo paternalismo. Molto amata da Eugenio Montale, da Calvino, e anche da Elsa Morante che definì «incantata poesia» il suo libro La penombra che abbiamo attraversato. Ma, appunto, sempre giudicata in quanto persona, come se i suoi libri fossero il suo manifesto morale: schiva, discreta, intimista, intimista nel senso inteso da Cesare Pavese, che secondo Montale aveva aperto la strada alla scrittura di Lalla Romano.
Poi, solo un anno dopo quell’intervista a Vittorio Sereni, in cui Lalla Romano avverte: mi ritenete una persona migliore di quello che sono, succede qualcosa di travolgente, perché viene pubblicato quel libro travolgente, Le parole tra noi leggere: la storia di una madre e un figlio, le ombre di un rapporto che non può essere idilliaco, gli errori di una madre, le beffe di un figlio, le aspettative completamente mutate dalla realtà, i ricatti, le stranezze, la fatica di una vita insieme che non è mai quel che immagini quando tuo figlio tende le manine per essere preso in braccio, con quella fiducia totale che nessuno ci offrirà mai più. La fiducia che tradiremo mille volte.
Le parole tra noi leggere vince il Premio Strega, viene molto letto, amato e discusso e di certo capovolge la benevolenza verso il mondo morale di Lalla Romano. Adesso la scrittrice piemontese non è più quella persona schiva e sognante, adesso è una madre che ha usato la vita di suo figlio, adesso viene accusata di essersi servita di sentimenti privati (che nei libri precedenti quando parlava ad esempio di Maria, la domestica, erano ritenuti suggestivi, poetici, e si riteneva che Lalla Romano avesse trovato la strada della verità) per le sue ambizioni letterarie. Adesso ci sono persone e scrittori e scrittrici scandalizzati da tanto ardire: un’azione immorale ai danni del figlio (sappiamo che questo libro ha avuto davvero delle conseguenze: il “famoso” figlio ha detestato il libro e non ha parlato più a sua madre), un libro bello, per carità, ma davvero una scrittrice può spingersi a tanto nell’uso della vita? Troppa audacia, troppa spietatezza: quell’amore persecutorio, quel personaggio ermetico, beffardo, inattivo, svagato, sonnolento, scontroso, quel figlio che rifiuta il mondo intellettuale della madre e ne rifiuta anche la dolcezza e la preoccupazione. L’hanno perfino rimproverata di far emergere troppo il ritratto della madre rispetto a quello del figlio. Insomma, un libro che entrava nella verità delle cose veniva accusato di essere entrato troppo nella verità delle cose. Un atto di tracotanza, per una scrittrice. Avrebbe potuto mascherarle, avrebbe potuto creare dei personaggi, delle coperture d’invenzione romanzesca, e allora sì che sarebbe stata “morale”. L’hanno rimproverata anche di mettere in cattiva luce la figura della madre, quindi di tutte le madri. «Lei non doveva toccare la madre!», le scrisse un tale, un uomo. La materia era scottante, certo, e le reazioni a questo romanzo provano che la libertà che Lalla Romano si è presa scrivendo (libertà letteraria, libertà tout court) non esisteva ancora. Esiste adesso, più di cinquant’anni dopo? O è troppo più forte la tentazione di passare dalle parole alla vita per giudicarla, per trovare un limite che non si deve superare e che invece si è superato (chi lo stabilisce questo limite? Il critico, un giudice, gli amici, il tale che scrive: lei non doveva toccare la madre?).
Lalla Romano stessa ha raccontato, con grande distacco, le reazioni a questo libro, ha scritto che le hanno rinfacciato l’intrusione nei sentimenti privati, ma anche la condivisione di troppe notizie sensibili: lettere, compiti scolastici, disegni del figlio (che, all’epoca della pubblicazione, aveva più di quarant’anni). «Io non scrivo affatto per dare notizie sulla mia vita: però la mia vita è tutto quello che ho, è me stessa».
«Non riconosco la colpa di cui sono stata accusata, quella cioè di avere “usato” un essere umano: la colpa per eccellenza, secondo Kant. (…) Natalia, che presentò il libro allo Strega (Natalia Ginzburg, ndr), mi confidò che era stata tentata di scrivere un pezzo intitolato: Cacciatori di frodo; e lei è una delle persone più oneste che io conosca». Forse uno scrittore è anche un cacciatore di frodo, come il titolo che Natalia Ginzburg era stata tentata di utilizzare, perché trova le parole, la lingua, per illuminare nuove porzioni di realtà, e per farlo deve correre dei rischi. Ma quali leggi viola? Quali leggi morali avrebbe violato Lalla Romano? Quella di dover sembrare una buona madre? Una scrittrice non troppo ambiziosa?
«Qualche tempo addietro una persona mi scrisse per domandarmi: “Se lei, dopo aver scritto il libro, avesse potuto sapere quanto sarebbe costato a suo figlio e a lei stessa, l’avrebbe pubblicato?”. Io non mi ero domandata questo. L’intrusione nella vita non può cancellare l’altra verità, quella della poesia. Risposi: “Sì"». La risposta a questa domanda sulla libertà di scrivere è soltanto: sì. —