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 2025  ottobre 11 Sabato calendario

Intervista a Nicolas Di Felice

I nonni erano minatori italiani immigrati in Belgio. Il papà ingegnere e la mamma agente di viaggio, erano arrivati bambini dall’Abruzzo insieme ai genitori. Lui, Nicolas Di Felice, 42 anni è nato a Charleroi, la città nera per il carbone. Oggi vive a Parigi, la città della luce. Dal 2020 è il designer di Courrèges. E, qualche volta, ancora, non ci crede.
Com’era Charleroi?
«Vivevamo in campagna, in una casa costruita da mio padre con i suoi fratelli. Ambiente semplice ma bello. Charleroi era segnata: case nere per la polvere di carbone, negozi chiusi, degrado. Ma il villaggio era un rifugio. In quell’oscurità vedevo poesia: montagne nere, crudo, autentico, romantico a modo suo».
Suo padre la mandò dai gesuiti, di moda lì poca...
«Ma ho imparato il lavoro e la fatica. Poi finii un’abbazia nel bosco. Erano scuole difficili. In quel periodo, avevo 16 anni decisi: “Farò moda”. E funzionò: arrivai a La Cambre (la scuola di moda a Bruxelles ndr). Non ero destinato, ma mi presero. Scoprii che adoravo drappeggiare, manipolare tessuti: avevo insomma talento tecnico, e fu quella strada. Ma mai mi sarei immaginato che sarei arrivato qui a Parigi. A 23 anni ero già da Balenciaga, fui mandato a New York per le pre-collezioni, in un hotel di lusso: non ci credevo. Io, nipote di minatori».
Che storia!
«Mi piacciono le storie. E ne creo sempre nelle mie collezioni. Non mi basta che un capo sia bello. Ogni drappeggio, ogni cucitura deve avere un perché. Anche se il risultato è minimale, ogni pezzo deve parlare. Lo show deve evolvere come un racconto visivo: silhouette, musica, materiali».
L’attualità la influenza?
«Molto. Viviamo in un continuo fluire di tragedie, e a volte ignoriamo. È dura restare ispirati. Per questo cerco una chiave: “discernimento”, il confine tra vedere e non vedere, tra essere abbagliati e diventare ciechi. Come designer, mi sento responsabile di non essere indifferente».
La pressione esterna?
«Enorme. Critica, social, compratori, pubblico: è facile perdere la rotta. Per questo mi chiedo sempre: perché faccio questo mestiere? Non è per fama o guadagni. Vivo nello stesso appartamento da quando sono in Courrèges. Mi bastano luce, piante, un po’ di verde».
Cosa la motiva davvero?
«Fare vestiti.
Quando la musica parte in studio e ho il tessuto tra le mani è magico. Ho studiato solfeggio; vorrei tornare a comporre. E un giorno unirò moda e musica».
La prima volta nella moda?
«Da piccolo amavo travestirmi: il carnevale ogni weekend. Vestirmi da personaggi, suonare alle porte… Capii presto che i vestiti cambiano identità, sono espressione. La moda come sistema arrivò più tardi. Il primo vero colpo fu Jean Paul Gaultier: lo vedevo ovunque; lì compresi che poteva essere il mio mondo».
E dopo Balenciaga?
«Quando Ghesquière partì, andai con Raf Simons da Dior. Poi Nicolas mi richiamò. Non ho mai cercato ruoli a tutti i costi. Ero contento di fare il mio lavoro, imparare passo dopo passo. A La Cambre studiavo storia della moda e in sei mesi conoscevo quasi tutto. I miei viaggi erano nelle biblioteche migliori. Internet serviva poco allora; erano gli archivi, i libri a insegnare».
Consiglia dunque le scuole di moda?
«Ho amato la mia scuola. Sebbene con pochi fondi, produce talento. Siamo usciti in molti, molti riconosciuti: Anthony Vaccarello, Mathieu Blazy, Julien Dossena. Anthony era avanti, già noto; gli altri erano del nostro giro. Glenn (Martens ndr) era un grande amico, con cui condivido ancora un legame forte. Parlare, confrontarsi, chiedere: sarebbe noioso se tutto fosse solo estetica».
Tempi difficili questi.
«È una fase strana. Oggi si parla più di business, gossip, chi va chi viene, che delle collezioni. È curioso. A me basta un bel film per apprezzarlo, senza sapere budget o strategie dietro. Vorrei tornare alla magia di un tempo. Comprendo il sistema, ma spesso il pubblico vede solo in e out, non la sostanza».
Come gestisce questo aspetto nel suo ruolo?
«Tengo il business e la comunicazione al loro posto. Non pago i VIP, non potrei poi permettermelo. Alcune persone famose vengono perché amano il brand».
Conosceva Courrèges prima di arrivare?
«Certo, avevo pezzi comprati all’asta o su Vinted. Nei miei studi arrivavo spesso a lui: la chiarezza, la semplicità radicale, l’immediatezza mi parlavano. Andrè non cambiava tutto ogni sei mesi, non seguiva le stagioni in modo convenzionale: c’erano lui e il suo vocabolario coerente. Era futurista nel taglio con il passato, non nel creare costumi spaziali. Voleva vestire le persone reali».
Hai mai pensato di creare il suo brand?
«Non voglio aggiungere rumore. Ce n’è già troppo».
È sposato?
«Sto con una persona speciale da cinque anni. Ora lavora con me. Ho fatto coming out a 16 anni, all’epoca non era facile ma anche oggi ci sono amici che non lo dicono... È ancora difficile da giovani. Per i nonni è stata dura ma ho sempre seguito la mia strada».

Cosa la preoccupa del futuro?
«Negli anni ’60 si sognava: la luna, la libertà. Oggi le paure sono altre. Il futuro è più cupo. E non lo vedo nell’iPhone successivo. È ecologia, convivenza, “vivere insieme”. Non voglio essere contro il progresso: supporto. Ma bisogna restare vivi, curiosi, porsi domande. Uno sguardo per strada vale molto. Adesso le persone camminano guardando il telefono. Bisogna ritrovare quei momenti: l’immediatezza dei social toglie la libertà, e mistero e sorpresa sono spariti».