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 2025  ottobre 11 Sabato calendario

Intervista a Ornella Muti

Alle pareti, sono appesi cuori in varie dimensioni. Le tende sono punteggiate di lune e stelline. Sembra la casa di una fatina e lo è. Ornella Muti ammette: «I figli mi prendono giro, ma quando vengono i nipotini sono felici. Ho un bagno pieno di pesci e meduse fatti di lucine, i bambini restano incantati: vedere dei bambini che ti amano al di là di quello che rappresenti, di come ti sei alzata, di come ti sei vestita è la mia gioia». Sul letto, saltano quattro cagnolini. I gatti non si contano, i maiali sono due. Uno dorme in soggiorno, l’altro è in giardino. In questa cascina nel Monferrato, capisci all’istante il titolo dell’autobiografia in uscita il 14 ottobre per la Nave di Teseo: Questa non è Ornella Muti. E quando ci si addentra nelle pagine di questo autoritratto, a tratti struggente a tratti divertente, ci si ritrova in un mondo dove nulla è come sembrava: l’icona di bellezza e sensualità racconta come mai ha fatto ingenuità, fame d’amore, inciampi, storie segrete – quella con Luca di Montezemolo, quella con Adriano Celentano – e rinascite.
Se «questa non è Ornella Muti», chi è?
«All’anagrafe, sono Francesca Rivelli, ma Francesca chi la conosce veramente? Chi la vuole conoscere? Colpa mia, anche: ho sempre avuto pudore a raccontarmi. Penso sempre di dire la cosa sbagliata. Ora, a 70 anni, scrivere è stata una psicanalisi, sono stata anche male. Ti guardi indietro e dici: ma dov’ero?».
Dove?
«Nel mondo delle fate, con tutta la sua bellezza, ma anche con tutto il suo dolore. Se non ci fosse il dolore, potrei camminare nelle strade della realtà. Ma io vorrei tutto rosa, tutto leggero».
L’incipit è: «Sgomento... Non ricordo un giorno in cui non l’abbia provato». Sgomento per cosa? Perché?
«Credo inizi a quattro anni, quando mamma mi porta in Svizzera dalla zia e mi lascia lì per un anno e mezzo, senza spiegarmi il motivo. Lì, parlavano solo tedesco e francese, non capivo una parola. E tornata a Roma, non conoscevo più l’italiano. Mi chiedevo: ma che succede? Non fu un abbandono, ma lo vissi come tale: avevo problemi ai polmoni, i medici mi avevano raccomandato aria di montagna, infatti, sono tornata bella sana e gonfia di formaggi svizzeri».
Com’è fatto il senso di sgomento che l’accompagna?
«Che preferisco sempre sapere cosa devo fare, come lo devo fare. E mi sento sempre fuori posto. Nel cinema, sono stata sempre fuori posto. L’esordio fu per caso, a 14 anni. Mi vergognavo da morire, ma per La moglie più bella pagavano un milione di lire e papà era morto: in casa, avevamo bisogno. Vado e non avevo la più vaga idea di cosa fare. Nella prima scena, dovevo correre e urlare “non morire, non morire”. Corro, urlo e il regista, Damiano Damiani, piomba su di me e mi gira la testa con un ceffone. Così almeno avrei pianto. Io, per dispetto, non piansi. Andavo sul set terrorizzata, perché non sapevo mai quando arrivava lo schiaffone. Un’altra volta, mi ha scudisciato le gambe con un frustino. Il medico vide i lividi e mi mise a riposo per quindici giorni. Disse: questa bambina è traumatizzata. Alle lamentele di mamma, la produzione rispose: dovete ringraziare il cielo che la facciamo lavorare».
Come era morto suo padre?
«All’improvviso. D’infarto. Ebbe un rantolo e morì davanti ai miei occhi. Avevo undici anni. Avrei preferito non essere lì. Papà era molto divertente, un vero napoletano. Particolare. Era un giornalista, poi gli avevano chiuso il giornale, aveva aperto uno studio medico senza essere medico, giocava d’azzardo. Lui e mamma erano l’estremo nord e l’estremo sud. Mamma era nata in Estonia, figlia del medico dello zar di Russia, profuga, era un’artista, poco adatta ad allevare i figli, curare una casa. Preferiva viaggiare. La mia famiglia era stata un caos e io sognavo una famiglia mia come un luogo di felicità assoluta».
Due mariti e poi storie lunghe e importanti, ma tante delusioni. Racconta di un ex «sposato e calcolatore», di un altro manipolatore... Ha sopravvalutato più gli uomini o l’amore?
«Ma sa... è facile manipolare una donna che vede in te quello che vuole vedere. È facile incolpare gli uomini, ma quando sei ferita come lo ero io, nell’amore metti troppe aspettative e voglia di riscatto e diventi un po’ cieca. Io ho sempre armato i miei nemici. Con tutta la mia allegria, tra l’altro, tipo: tieni, ti do la spada di fuoco! Ho fatto il mio casino. Ma nell’amore, quello sano, ci credo ancora».
Perché solo ora racconta che il primo fidanzatino è stato Luca di Montezemolo?
«Perché è uscito sui giornali, non so chi l’ha detto. Qualcuno, non io».
La sua prima moglie Sandra Monteleoni rivelò di aver trovato una lettera d’amore di 40 anni prima.
«Avevo 16 anni. Ho un ricordo di Luca meraviglioso, perché era pazzo, pazzo: correva in mezzo alla strada all’improvviso e mi urlava “Ti amo!”. Mi regalò una fedina. Era proprio divertente. A me piace molto ridere. Si vive una volta sola e stiamo sempre a piangere...».
Perché finì?
«Perché non sapevo che aveva un’altra fidanzata. Più altolocata. Scelse lei, Sandra. Poi, la sposò».

E ora lei ammette anche che con Celentano fu amore.
«Che fossimo stati insieme l’ha detto lui, senza chiedermi il permesso. Una violenza. Io aggiungo che è stata una storia breve, ma d’amore. Non concepisco il sesso per il sesso. L’ho detto: ci casco sempre quando uno è divertente. E lui lo era, molto. Ho tradito mio marito, che era ai tempi Federico Facchinetti, una cosa orribile. Forse, ho tradito perché ero stata tradita, ma a volte, è una scusa che uno si dà. E poi con Adriano è finita. Io ci sarei anche rimasta. Ma è andata così ed è stato meglio».

La prefazione al libro è del regista Sean Baker, quattro Oscar per «Anora». Scrive che aveva nove anni quando la vide in «Flash Gordon» e che quello fu il suo primo turbamento erotico.
«Preparava un cofanetto dei miei film, mi ha chiesto un’intervista. Non aveva ancora vinto gli Oscar. È venuto con la moglie, il cane. Lasciamo perdere il turbamento erotico, perché è tutto il resto che ha riempito di gioia un’insicura come me: mi ha detto che l’ho formato come regista, l’ho ispirato...».
Baker loda il suo spessore drammatico in «La moglie più bella», «Un amore di Swann», «Codice privato» e scrive che buca lo schermo in «Un posto ideale per uccidere», «Appassionata» e «L’ultima donna»...
«E invece la critica è stata spesso così feroce...».
Poi, scrive che lei ha sfidato gli uomini che volevano controllarla, le norme sociali, che è stata madre single e guerriera, un’artista sfuggita ai cliché in cui l’ingabbiavano. Si riconosce nel ritratto?
«Sul lavoro non glielo so dire, ma nella vita sì. Vorrei stare sulla nuvoletta tutto il giorno, ma dalla nuvola scendo: mi armo, combatto. Mi dà forza sapere che ho la mia nuvola di figli e nipoti a cui tornare».
«Guerriera» lo è stata quando nel 1974 non volle abortire.
«Non voglio neanche darmi troppi meriti. Tutti mi dicevano che avrei perso il film con Mario Monicelli, che la mia carriera sarebbe finita, ma io queste cose non le ho proprio calcolate. Forse, per il mio trauma, ho sempre privilegiato affetti, famiglia. E poi Naike mi ha tenuta in una carreggiata diritta: erano gli Anni ’70, ero piccola, innocente, con tutti i miei problemi, bella, ero un bocconcino come tante ragazze in un mondo di lupi, di droghe: è ovvio che ero in pericolo. Avevo provato l’Lsd, un’amica l’ha preso e si è buttata dalla finestra. Ma avendo Naike, non potevo bere, drogarmi, perdermi».
Quel film con Monicelli, «Romanzo popolare» poi, lo fece lo stesso.
«Mario mi disse: giriamo prima tutte le scene a figura intera, così non si vedrà la pancia. Era un grande uomo».
I grandi di un’epoca li ha incontrati tutti.

«Ugo Tognazzi è stato un amico, un fratello maggiore. Era un tombeur de femmes, ma con me no.
Sul set se mi vedeva in difficoltà trovava sempre un modo per aiutarmi. Dino Risi era quello che temevo di più: imponente, alto, con occhi azzurri che ti trapassavano; si divertiva a spaventarti, lo faceva apposta. Marcello Mastroianni era mezzo leggero e mezzo malinconico. Un coccolone. Alberto Sordi era una risata dietro l’altra. S’immagini le battute: Sordi, Muti, e ’ndo stanno i ciechi?».
E poi scrive: «C’è una sola cosa più complessa che recitare con un divo: recitare con due divi» e racconta di Alain Delon e Jeremy Irons.
«Fare Un amore di Swann fu durissimo. Delon soffriva Irons, lo viveva come un rivale più giovane. Jeremy, invece, con me era gentilissimo. Un giorno, avevo un corsetto strettissimo, faceva caldo e svenni, ma lui mi prese al volo. Essere raccolta mentre ti senti male e neanche chiedi aiuto è meraviglioso».
C’è stato qualcosa tra voi?
«Niente. Ma avrebbe potuto, forse».

Rinunciò a essere la Bond girl di Roger Moore per lealtà verso un amico: voleva che fosse Wayne Finkelman a farle i costumi e fu scelta invece Carole Bouquet. Si è pentita?
«No, ormai è andata. Mi sono consolata dicendo che, in fondo, le Bond girl non hanno mai avuto grande fortuna».
Quanti pregiudizi ha subito nel mondo del cinema?
«C’era l’idea che il vero cinema fosse fatto da gente militante, intellettuale, impegnata. Io, invece, ero vista come una farfalla».
E cinema lo ama ancora?
«Sì, certo. Ho appena girato Il filo rosso di Alessandro Bencivenga, in cui interpreto Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini, rinchiusa in manicomio. E nel film di Bertrand Mandico, Roma Elastica, faccio un personaggio per me orrendo: una presentatrice esaltata che flirta con la macchina da presa, parla al suo pubblico... Mi sono divertita tanto. Poi devo fare due piccoli ruoli in film tedeschi e russi. Faccio quello che c’è e che mi diverte. I ruoli per donne della mia età sono pochi, ma non importa. Ho fatto tanto. Le cose cambiano e va bene così».
Era buddista. Lo è ancora?
«Il buddismo è stato un percorso molto bello. Ma poi ho iniziato a pregare Dio e la mia vita è cambiata. Nel buddismo, devi esprimere tre desideri, a breve, medio e lungo termine, e a me non si è realizzato niente. Invece, pregando Dio, dopo una settimana, le cose si sono sciolte. Mi sento più al sicuro sapendo che c’è Dio sopra di me».