Corriere della Sera, 11 ottobre 2025
Intervista a Flavia Filippi
Anziché chiudere le celle a doppia mandata e buttare via le chiavi, come la piazza pretenderebbe dallo Stato, Flavia Filippi, giornalista del Tg La7, spalanca ai detenuti le porte delle aziende. Dal 2022 è questa la sua ragione di vita. Aveva 10 anni quando cominciò a pensarci. Per la recita di carnevale in quinta elementare, tra fatine e damine, si presentò alle amichette travestita da carcerata, con gamella, cucchiaio e il numero 17-17 cucito sull’uniforme a righe. «Il simbolo della iella, doppio, perché già allora vedevo i reclusi come gli esseri più sfortunati al mondo», spiega. Oggi gli trova un posto di lavoro.
Con le sue sole forze, ha fondato Seconda Chance, associazione no profit del terzo settore. Ne ha sistemati oltre mezzo migliaio, aiutata da una ventina di sodali. L’aspetto incredibile è che le posizioni lavorative, già 700, arrivano finanche dagli uffici giudiziari e superano il numero dei candidati. A rispondere sono colossi come McDonald’s, Nespresso, Terna, Kfc, Burger King, Autogrill, Conad, Autostrade per l’Italia, Illycaffè, Cremonini, San Pellegrino, Arcaplanet. «Ben 70 posti solo da Primark. Invece Ikea ha arredato una parte del carcere di Frosinone».
Da che nacque questa propensione?
«Dal disagio. Fin da piccola ho avvertito la mia condizione di privilegio».
Sognava di diventare una detenuta?
«Sentivo di dover fare qualcosa. Chiesi a mia madre Esther quel costume e lei, invece di dissuadermi, mi portò da un materassaio a comprare la stoffa. Nel prendermi le misure, la sarta si stupì: “Ma che cos’ha questa bambina?”».
Qualcosa d’importante lo ha fatto.
«Il prologo fu nel 2015. Diedi vita ai Liberi netturbini pontini per ripulire le spiagge di Sabaudia. Sono un’altruista felice. Ho avuto pochissime delusioni».
Ma nel destino c’erano i penitenziari.
«Avevo 20 anni. A due settimane dal nostro incontro, il mio fidanzatino fu arrestato per fatti legati agli anni di piombo. Andavo a trovarlo in carcere ad Arezzo. Mi pareva un’ingiustizia. Oggi sono più equanime nel soppesare le ragioni dei detenuti e quelle delle vittime. Anche perché come giornalista mi occupo di cronaca giudiziaria».
Quando è nata Seconda Chance?
«Ci pensai nel 2021. Girai a vuoto per un anno. Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma, mi disse: “Sei matta, da sola non ce la fai. Apri un’associazione”. A luglio 2022 la costituii. Ora ho dei compagni di viaggio meravigliosi: cinque a Roma e in Piemonte, tre in Lombardia, due in Veneto e in Liguria, uno in Abruzzo, Campania, Sardegna e Calabria. Nel Sud, Sicilia a parte, è più dura».
Chi sono?
«Avvocati, giornalisti, pensionati, ex detenuti. Un recluso di Catania, in detenzione domiciliare, lavora da casa. C’è anche un ergastolano di Santa Maria Capua Vetere, sociologo, stipendiato da Seconda Chance grazie a un bando dell’Università di Catania. Quando ha ricevuto la prima busta paga, ha pianto».
Che cosa fanno i volontari?
«Questa non è una missione che puoi svolgere solo per volontariato. Non è che dici al detenuto: “Beh, dai, mio zio ha un’officina, forse può assumerti”, mi spiego? Riceviamo lettere da reclusi di tutta Italia. Le smistiamo, rispondiamo, profiliamo i candidati. Poi andiamo a bussare alle porte di grandi gruppi, ditte, negozi e chiediamo se sono interessati ai vari tipi di dipendenti selezionati».
E se sono interessati, che accade?
«Organizziamo incontri nelle prigioni fra i detenuti proposti dalla direzione e le aziende disposte ad assumere».
I datori di lavoro che ci guadagnano?
«Gli sgravi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia».
In soldoni?
«Un credito d’imposta fino a 520 euro mensili, che si abbassa a 300 se il lavoratore è in regime di semilibertà. Collaborare con Seconda Chance è fondamentale anche per il bilancio sociale dell’impresa. Contribuiamo a ridurre i casi di recidiva. Tra coloro che lasciano la prigione senza un lavoro, 81 su 100 ci ritorneranno. Fra quelli che ce l’hanno, appena l’1 per cento».
Chi fu il primo recluso che fece uscire dalla prigione?
«Marcello, un palermitano che stava a Rebibbia da oltre 20 anni. Barcollava per l’emozione quando lo accompagnai dalle due titolari di Le Serre by ViVi, catena di ristoranti molto nota a Roma. Credeva che ci fossero ancora le lire, ignorava l’avvento degli smartphone».
Quella fu la prima porta a cui bussò?
«No. All’inizio andai a proporre la mia idea ad Andrea Piccioli, direttore generale dell’Istituto superiore di sanità. Ci credette subito. Assunse tre manutentori».
Come lo convinse?
«Non ve ne fu bisogno. Se uno può aiutare e non aiuta, non voglio trovarlo sulla mia strada. Ma come? Da inizio gennaio siamo già a 66 suicidi in carcere, cui si aggiungono 1.123 tentati suicidi, e tu non aiuti? Io non vado dal parrucchiere, non frequento la palestra, non vedo un’amica da tre anni, e tu non aiuti? Passo il tempo libero a chattare con i direttori degli istituti di pena e i capi del personale delle aziende, e tu non aiuti? In tre settimane per Seconda Chance sono stata due giorni a Catania, due a Vasto, due a Milano, uno a Frosinone, e tu non aiuti?».
Come fa a conciliare un impegno tanto gravoso con il suo lavoro a La7? «Il direttore Enrico Mentana mi vuole bene. Tre anni fa è stato lui ad assistermi nell’acquisto del dominio secondachance.net e ci ha destinato il 5 per mille della denuncia dei redditi. Mi sono molto vicine Gaia Tortora, la figlia di Enzo, e Silvia Borromeo, già capo della redazione di Milano, oggi in pensione, che guida Seconda Chance in Lombardia».
Quante aziende ha contattato finora?
«Migliaia. Ho scritto in piena notte su Linkedin agli amministratori delegati di Bosch, Illycaffè e Arcaplanet».
Le rispondono tutte?
«All’inizio una su 100, poi due su 50, adesso due su 10. La multiutility A2A ha appena offerto alla provveditrice alle carceri della Lombardia di tenere corsi di formazione nei penitenziari della regione, della Val d’Aosta e del Tigullio finalizzati al reclutamento di netturbini».
Ho visto che è riuscita a entrare anche in Vaticano.
«La Fabbrica di San Pietro ci ha assunto manutentori, elettricisti e banchisti per il bar del Cupolone, cinque in tutto, che presto diventeranno sei. E ha commissionato ai detenuti sarti di Viterbo 350 borsoni con il logo della basilica, fatti riciclando le vele delle barche».
Ha convinto Pietrangelo Buttafuoco.
«È stato carinissimo. Ce ne ha presi quattro alla Biennale: due per la ristorazione, uno in biglietteria, uno alla Mostra del cinema al Lido di Venezia».
Invia i reclusi a lavorare persino per i magistrati che li hanno condannati.
«Abbiamo un protocollo d’intesa con il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ernesto D’Amico, presidente del Tribunale di Verona, ad aprile ci ha chiesto quattro archivisti. Mi sto dando da fare per accontentare anche il suo collega di Padova».
Ma chi garantisce che i soggetti usciti di prigione righino dritto? «Nessuno. Abbiamo avuto qualche raro infortunio con detenuti che all’esterno hanno ripreso a bere o a drogarsi, come accade peraltro nei posti di lavoro fra molti dipendenti in libertà».
Non ci sarà qualcuno che ruba?
«Sarò sincera: solo un caso, su quasi 600. Un recluso ha sottratto soldi dalla cassa. È stato scoperto grazie alle telecamere. Ho dovuto riguardare il video più volte, non volevo crederci. Ma quanti furti si consumano nelle aziende?».
Gli stipendi non saranno esaltanti.
«Per 20 ore settimanali, 700 euro. Però se un padre ha tre figli, devo trovargli un lavoro da otto ore quotidiane. Abbiamo appena sistemato un manovale a 1.500 euro mensili, secondo il contratto vigente».
La paga come gli viene corrisposta?
«Giunge alla direzione del carcere, che gliela accredita sul conto personale».
Nessun lavativo che scantona?
«Ci facciamo in quattro perché non accada. Sugli appuntamenti di lavoro non transigo, arrivo a minacciare per scherzo i miei protetti. Gli dico: occhio, io ti offro anche la terza e la quarta chance, se occorre, ma non espormi a brutte figure, altrimenti ti riempio di botte».
Come vi finanziate?
«La sede legale ce l’ho in casa. Per oltre due anni ho anticipato le spese di tasca mia. Agli amici di Seconda Chance spediti nei penitenziari in giro per l’Italia devi pagare la vita, non la benzina. Ci aiutano Banca Intesa Sanpaolo e Fondazione Roma. Sono arrivati contributi da Confcommercio, McDonald’s, Entain. Di gente buona ce n’è ancora tanta, sa?».
Quante carceri ha visitato?
«Almeno una trentina. È questo che sento di dover fare nella vita. La prima volta che andai in quello di Viterbo, durante il viaggio piangevo per la gioia».
Avrà vissuto anche momenti difficili.
«Avevo trovato il posto a un recluso di 36 anni. Ho atteso per 24 mesi che uscisse. Mi ha chiamato, era in taxi con la mamma, andava al lavoro per la prima volta. È morto di overdose il mese dopo».
Il più bel complimento che ha avuto?
«Da Andrea Paolantoni, titolare del gruppo Palombini, caffè, ristoranti, catering. Dopo i colloqui con quattro detenuti, ha scritto su WhatsApp: “Mi ha regalato la più bella mattinata della mia vita”».
Se dovesse finire in prigione, che lavoro esterno accetterebbe di svolgere? «Uno qualsiasi, pur di non passare i giorni a dare capocciate nel muro».
Lei è credente?
«Non sono atea. Cerco la scintilla».
Perché fa tutto questo?
«Niente m’interessa di più».