la Repubblica, 10 ottobre 2025
Casarin: “Quella volta che anche mia moglie mi insultò dagli spalti”
C’è un uomo che ama il calcio, ha 85 anni ed è stato un grande arbitro. Si chiama Paolo Casarin. Un giorno di qualche anno fa, un uomo che si chiamava Gianni Mura, che ieri ne avrebbe compiuti 80, gli disse: «Paolo, perché non scrivi i tuoi ricordi prima di essere troppo vecchio? Se vuoi, ti aiuto io». Ne venne fuori un libro pieno d’amore: Vita e pensieri di un arbitro (Rizzoli). Un dono.
Casarin, cominciamo proprio da Mura.
«Abitavamo vicini. Io ero stato buon amico di Brera, e nel Gianni più giovane vedevo una specie di proseguimento del maestro. L’idea del libro è sua. Anche l’introduzione è sua, magnifica, che voi di Repubblica avete anticipato ai lettori, e poi le didascalie delle foto d’epoca. Le scrisse Gianni. Cercava e raccontava i dettagli, i baffoni del guardiano del campo, i bottoni grossi del cappotto nuovo delle mogli dei giocatori in tribuna. Unico, impareggiabile Mura».
Chi è l’arbitro?
«Non più il Dio onnipotente dell’Antico Testamento, quel giudice remoto e a volte incomprensibile, ma una persona che vuol bene ai calciatori. Anche loro devono volergli bene, perché al comando assoluto si sostituisce il dialogo, pieno di rispetto».
L’arbitro è solo?
«Sì, ma gioca anche lui. Io in campo guardavo i piedi di Maradona, larghi e stretti nelle scarpe slacciate, e provavo a immaginare cosa avrebbe fatto. Impossibile prevederlo».
Perché l’arbitro gioca?
«Perché è rimasto il bambino del campetto, il mio era a Mestre, vicino allo stadio, papà era operaio ai cantieri navali di Porto Marghera: il calcio, prima l’ho sentito e ascoltato, poi l’ho visto con gli occhi. Credevo che quelle persone stessero andando a messa, invece andavano alla partita. Due riti mica tanto diversi».
Le gare nel Polesine, sull’argine minacciato dalle acque. E le grigliate a bordo campo.
«Ah, il Veneto! Una volta, a Villa Bartolomea, però nel Veronese, misero un arbitro a sedere su una stufa accesa».
A lei non è andata così male.
«No, per fortuna. Però ne ho viste di tutti i colori. A Maglie, durante la sfida contro il Brindisi, mi tirarono una scarpa che mi sfiorò il viso: la raccolsi, e la tenni in mano mentre arbitravo. Nell’intervallo venne il maresciallo dei carabinieri e mi disse: signor arbitro, me la consegni, altrimenti le arriverà anche quell’altra».
A volte, l’arbitro prega.
«Nel Mundial ’82, il peruviano Labo di cui ero guardalinee allestì un altarino e cominciò le orazioni negli spogliatoi. Gli dissi che la partita stava per cominciare, ma non smise».
La sera prima della finale, lei la trascorse con Bearzot.
«Mi chiamò nel suo albergo e cominciò a raccontarmi della Prima Guerra Mondiale. Andò avanti fino alle due e mezza. Gli dissi: “Enzo, grazie, molto interessante ma guarda che ore sono”, lui rispose “Paolo, mica vorrai andartene adesso?”. E attaccò con la Seconda Guerra Mondiale. Finì quasi alle cinque, aveva bisogno di astrarsi dall’imminenza della grande partita».
E dopo la finale, ancora nel medesimo hotel di Madrid, stavolta con Zoff.
«Venne un uomo e cominciò a parlare con Dino, che gli osservava le mani, enormi. Io guardavo la scena, appartato. Poi Zoff salì in camera e tornò con la sua maglia: la regalò all’uomo, che era un minatore italiano venuto apposta dal Belgio per la finale. Questo è Dino Zoff».
Il paròn Rocco è protagonista di pagine memorabili.
«Gli spazzini di Padova erano le sue spie: lavorando la notte sapevano se qualche giocatore andava in giro in ore sbagliate…».
Per non parlare dei marinai raccattapalle in Islanda.
«Il campo era a ridosso del mare, separato solo da una rete molto bassa. Quando il pallone finiva in acqua, veniva recuperato da una squadriglia di dieci piccole imbarcazioni».
La sua divisa: nera, con il risvolto dei calzettoni azzurro Italia. Oggi gli arbitri sono vestiti come pennarelli e bardati come astronauti.
«Sì, abbastanza assurdo. Nella borsa io avevo asciugamano, divisa, fischietto, cartellini, orologio e scarpe da calcio, lucide e nere. La mia mamma tingeva di scuro i lacci. Io la chiamerei eleganza».
L’occhio doveva bastarvi.
«Ma ormai tutto il mondo rivedeva le azioni in tempo reale alla moviola, fuorché l’arbitro: non poteva continuare così. Ma sarà sempre l’umanità a reggere la baracca, non la tecnologia. Parlarsi, capirsi, rispettarsi».
L’abbraccio più bello?
«Quello con Ruud Gullit agli Europei ’88, Inghilterra- Olanda, la mia ultima gara internazionale e lui lo sapeva. Venne e mi strinse».
Lei chiude il libro parlando dei bambini.
«Saranno loro a garantire il futuro. Lasciamoli giocare in pace, e l’arbitro mettiamolo in campo quando saranno già un po’ cresciuti. Prima, non ne hanno bisogno».
Ma perché si grida “arbitro cornuto”? Che c’entra?
«Diressi un’amichevole della Juventus a Mantova, e la gente cominciò a gridarmi “scemo!”. In tribuna c’era anche mia moglie Francesca, e io avevo paura che la riconoscessero. Alla fine, andai da lei e le chiesi se qualcuno le avesse dato fastidio. Lei mi rispose: “Ma no, figurati, per mimetizzarmi mi sono messa a darti dello scemo pure io!”.
Casarin c’è una voce da ricordare tra le molte? Un suono?
«Beppe Furino che grida “cuore!” ai compagni durante un Roma-Juve, per tenere unita la squadra in un momento difficile. Quell’omino con la fascia nera di capitano e le gambe più lunghe di quanto la sua statura lasciasse supporre, nelle mie orecchie ancora risuona. È questo il calcio che ho amato e che amo».