la Repubblica, 10 ottobre 2025
Nick Mason: “Io, i Pink Floyd e quel dolore per Syd. Wish you were here fu il disco più difficile”
«Syd Barrett venne in studio per due giorni consecutivi durante le registrazioni di Wish you were here». Nick Mason, 81 anni, ex batterista dei Pink Floyd, riscrive una storia diventata leggendaria: quella della visita a sorpresa di Barrett agli Abbey Road Studios che lasciò i Pink Floyd stupiti, commossi e un po’ disperati. L’addio del chitarrista originale del gruppo è rimasta una ferita aperta in tutti i suoi ex compagni, che non hanno mai superato il senso di colpa per averlo lasciato andare alla sua deriva in bilico tra follia e sostanze. Quando arrivò in studio, calvo, ingrassato e con una busta di plastica in mano, la band stava registrando Wish you were here, più di 20 milioni di copie vendute (il disco più amato della loro produzione insieme a The dark side of the moon) che il 12 dicembre, in occasione dei 50 anni dall’uscita, verrà ripubblicato con 16 tracce live del 1975 mai pubblicate e il singolo Have a cigar uscito all’epoca solo in Giappone.
Mason, cosa ricorda della visita di Barrett in studio?
«Beh, la cosa più curiosa è che abbiamo tutti una versione leggermente diversa della storia. Io pensavo che fosse venuto solo un giorno, ma è abbastanza chiaro che in realtà sia venuto due volte. E per qualche motivo, io non c’ero quel secondo giorno. Ero in studio e Syd entrò nella sala regia e io non lo riconobbi. Fu David Gilmour a sussurrarmi “È Syd, non lo riconosci?”. È stato scioccante e credo che lo fosse per tutti, in realtà».
Ha qualche rimpianto per come sono andate le cose con lui? È stata davvero la droga ad alienarlo, secondo lei?
«Sono sicuro che la droga abbia avuto un ruolo, ma penso che ci fossero anche altri problemi. Credo che Syd avesse deciso di non voler più far parte di una band. E pensammo che questo significasse che doveva essere arrabbiato. L’abbiamo affrontata molto male, ma non sapevamo come comportarci. Non credo che si possa necessariamente attribuire tutto alla droga. C’è chi sostiene che potrebbero essere state pasticche particolarmente forti di Lsd a causare parte del problema. Non riusciremo mai a superarlo del tutto».
Ha definito “Wish You Were Here” il suo album preferito, ma anche il più difficile nella storia dei Pink Floyd. Perché?
«Penso che i motivi fossero due. Il primo è che arrivavamo da Dark side. E quindi tutti sapevano che il disco successivo sarebbe stato accolto con molte aspettative. Ma soprattutto stavamo crescendo dopo aver trascorso quattro o cinque anni come una boy band. Eravamo tutti sposati e avevamo figli, e improvvisamente vivere in uno studio tutti i giorni non ci andava più bene come prima».
Come è nato il conflitto tra Roger Waters e David Gilmour?
«Non sono in grado di dire le vere motivazioni. Roger sembrava voler lavorare di più da solo. Ma in quattro producevamo un lavoro migliore che non da soli».
Quando è iniziato? E lei da che parte stava?
«Probabillmente già all’inizio, ma non prendo posizioni. Sono ancora in contatto con loro, David ha suonato con la mia band (i Saucerful of Secrets, ndr) a New York. Anche se mi sento più spesso con Roger».
C’è voluto Nelson Mandela per riunirli nel 2005.
«Credo sia stato merito di Bob Geldof, in realtà».
I temi di “Wish you were here” sono la solitudine, l’isolamento e l’assenza.
«Fino alla fine non avevamo ancora ben chiaro di cosa parlasse il disco. È diventato più chiaro verso la fine. La visita di Syd ha aiutato a fare luce. E certamente, quando Storm Thorgerson e Aubrey Powell hanno finito di lavorare alle immagini da abbinare all’album, è diventato tutto più chiaro. Ma bisogna ricordare che i primi sei mesi di registrazione sono stati spesi in un tentativo fallimentare di realizzare un disco usando oggetti domestici. E credo che questo abbia complicato ulteriormente la situazione, dato che avevamo davvero sprecato sei mesi per qualcosa che non avrebbe mai avuto successo».
Cosa le manca di più della band?
«Suonare con loro. Mi piace andare in tour con i Saucerful, ma ho passato 40 anni con Roger. Si sviluppa un’alchimia unica. Mi mancano il cameratismo e la storia condivisa dal 1967, ma non me ne pento».
Qual è stato il momento che ricorda come il più felice?
«Il primo tour in America: eravamo giovani, ingenui, è stata un’avventura emozionante».
Lei è un grande collezionista di auto: quante ne possiede?
«Troppe. Ma il numero è rimasto più o meno uguale. Preferisco Ferrari e Porsche, ma sono molto liberale sulle scelte».