Sette, 10 ottobre 2025
Intervista a María Corina Machado: «La sconfitta di Maduro? Mai stata così vicina. Vivo in clandestinità, il regime mi dà una caccia feroce»
Intervista pubblicata su 7 il 24 novembre 2024.
María Corina Machado è vicinissima al monitor. La luce dello schermo le illumina il viso e la camicetta azzurra. In alto, a destra e a sinistra, si vede solo bianco, il muro. Nessun dettaglio ci consente di capire dove si trovi la leader dell’opposizione venezuelana. Dal 30 luglio ha fatto perdere le sue tracce. Parla con 7 da un luogo sconosciuto. «Sono in Venezuela», assicura.
«Vivo nascosta. Sola, senza nessun contatto umano», dice Machado, a cui è stata negata la corsa alle elezioni presidenziali, seppur il 22 ottobre 2023 abbia vinto le primarie dell’opposizione con oltre il 90 per cento dei voti. Così, il 28 luglio, è toccato all’ex diplomatico Edmundo González Urrutia, 75 anni, sfidare l’autocrate Nicolás Maduro, al potere dal 2013.
Eppure, lei, ingegnera, fondatrice del partito politico liberale Vente Venezuela, ex deputata della Assemblea Nazionale, è l’unica speranza del popolo per interrompere decenni di regime. In clandestinità, ora, riallaccia i fili della democrazia: «Ogni giorno ho riunioni su riunioni, incontro migliaia di persone di tutto il mondo, però non posso toccare nessuno. Arrivo sullo schermo e mi viene voglia di abbracciare», racconta mentre si sporge in avanti. Per lungo tempo ha atteso una data: il 10 gennaio 2025. Il presidente eletto ha prestato giuramento. Nicolás Maduro sostiene che sarà di nuovo lui a capo dello Stato. Machado aggrotta le sopracciglia e picchia un pugno sul palmo della mano sinistra. Batte le nocche: «Non può andare così».
Machado beve da un bicchiere e si asciuga gli angoli della bocca con un tovagliolo. «Il 28 luglio ha vinto Edmundo González Urrutia 70 a 30, 40 punti di differenza, se tornassimo a votare ora vinceremmo 90 a 10. Nessuno avrebbe accettato di fare le elezioni a quelle condizioni: ci minacciavano, ci perseguitavano. Quando abbiamo raccolto e pubblicato online il conteggio dei voti, il mondo intero ha avuto le prove della sconfitta di Maduro. E che cosa ha deciso di fare Maduro? Reprimere: in una settimana, oltre 2 mila incarcerati».
Da settembre, González è in esilio in Spagna. Tornerà?
«Io ed Edmundo siamo una grande squadra. Lui è stato costretto a firmare una lettera e andarsene, se fosse rimasto lo avrebbero imprigionato. Quel foglio non vale niente, è un’autocondanna di Maduro, dimostra che il regime estorce, ricatta. Edmundo tornerà e sarà il nuovo presidente, come ha deciso il popolo».
Sembra parecchio sicura. Come mai è tanto convinta della fine del regime?
«Mai in 25 anni siamo stati così vicini dalla sconfitta della tirannia cominciata con Chávez. L’opposizione è più forte. Abbiamo il 90 per cento del Paese unito. La gente ha aperto gli occhi dal massiccio fallimento del socialismo chavista: prima dipendeva dallo Stato, ora dice basta. Non siamo liberi se non abbiamo la proprietà privata».
Fu proprio lei a dire nel 2012 a Chávez: «Espropriare è rubare».
«Il Paese era d’accordo con me, ma non tutti osavano dirlo, ora sì. Quello che abbiamo vissuto va oltre Maduro: adesso è una lotta esistenziale per la vita, una lotta etica per la verità e una lotta spirituale per il bene. Non si torna indietro».
Qual è il prezzo che paga?
«Sono più di dieci anni che non mi permettono di uscire dal Venezuela. Da oltre sette non posso prendere un volo nazionale. L’ultimo aereo privato con cui ho volato è stato sequestrato. Mi spostavo solo con la mia macchina. Negli ultimi mesi il regime ha persino bloccato le strade affinché non attraversassi le città. Hanno chiuso e multato gli hotel e i ristoranti dove mi sono fermata. Era diventata una caccia feroce».
Com’è cambiato il Paese?
«Nel 2023 il Venezuela era visto come uno Stato alla deriva, triste, oscuro, diviso, senza speranza. Fuori si diceva: “Dimenticate le elezioni del 2024. Semmai preparatevi per il 2030”. Lì ho detto: no, ogni giorno che passa sono bambini sempre più affamati e che non vanno a scuola. Così abbiamo visitato tutto il Paese, municipio per municipio. Sono stata in comunità piccolissime di 30 o 40 famiglie. Chiedevano perché andassi proprio là. “Non ci sono voti”, mi dicevano».
Che cosa rispondeva?
«Che non avevano capito niente. Non si tratta di voti, ma di unire il Paese. In un municipio l’ultimo candidato presidenziale era passato negli anni Settanta. Altri comuni non lo avevano mai visto. Il regime era convinto che nessuno sarebbe andato a votare alle nostre primarie, invece sono stati quasi tre milioni. La gente mi aveva scelto, nonostante le minacce che già subivo. Tutti stavano sfidando la tirannia. Lì Maduro si è reso conto che questo movimento era inarrestabile, così ha cercato di bloccarmi, squalificandomi dalle presidenziali. Allora sono riuscita a presentare la candidatura di Corina Yoris. Non l’hanno lasciata correre. Poi, Edmundo González. Penso che Maduro abbia paura delle donne».
Perché paura?
«Perché sa che noi siamo disposte a dare tutto per i figli. Per molti anni mi hanno sottovalutata, non solo il regime, anche i partiti tradizionali e la gente. Il Venezuela è considerato uno Stato machista. Molti hanno creduto che non avrei ottenuto il sostegno del popolo. Invece se qualcosa mi ha aiutato in questa lotta è proprio il fatto di essere donna».
Dove sarebbe il vantaggio?
«Sa che cosa unisce i venezuelani? Che cosa bramano? Riportare i figli a casa. Il sistema ha espulso quasi il 30% della popolazione, qui non c’è una sola famiglia unita. Le persone mi supplicavano: “María Corina, riportami i miei figli”. Il Paese ha bisogno di protezione e comprensione. In famiglia, generalmente siamo noi madri che guariamo le ferite. Non voglio più che la gente se ne vada, desidero che ritorni a ricostruire il Venezuela».
Che cosa chiede all’Europa?
«Che cosa ha fatto finora? Molto bene le dichiarazioni, ma non bastano. Deve agire, far sapere ai criminali che stanno uccidendo i venezuelani che la giustizia internazionale passerà all’azione. L’Europa sa che Maduro ha rubato le elezioni e ha commesso crimini di lesa umanità. Lui ha legami con l’Iran, con la Russia, con la Bielorussia, con la Siria, con Hezbollah, con i cartelli della droga, con le guerrillas colombiane».
Che cosa vuole dire invece all’Italia?
«Ringrazio l’Italia. Giorgia Meloni è diventata la voce più solida in difesa del Venezuela in Europa. Ma abbiamo bisogno di voi adesso, non a gennaio. Il regime ha profonde fratture interne e solo mettendogli pressione arriverà al punto in cui rimanere con la forza al potere avrà un costo più alto che lasciarlo».
L’elezione di Trump è una buona o cattiva notizia per il Venezuela?
«Il regime è terrorizzato dal risultato delle elezioni americane. L’opposizione è riuscita a far sì che la lotta venezuelana sia una causa bipartisan perché è un tema di sicurezza nazionale. Ho amici senatori democratici e repubblicani. Sono convinta che la nuova amministrazione continuerà a insistere affinché Maduro capisca che l’unica opzione che gli resta è andarsene».
Ha parlato con Maduro?
«No, mai, ma sono disposta a negoziare la transizione verso la democrazia a partire dal riconoscimento delle elezioni del 28 luglio e i termini di uscita del regime».
Quando arriverà la democrazia?
«La transizione non ha una data di scadenza, siamo all’inizio di una nuova era. Porteremo lo stato di diritto, avremo una giustizia solida e indipendente, un Venezuela che aprirà i mercati. Trasformeremo il sistema educativo, quello previdenziale e sanitario. Da essere l’hub criminale delle Americhe diventeremo l’energy hub del continente».
Che cosa le dicono i suoi figli?
«Molte cose, a volte sono spaventati, altre orgogliosi. Mi appoggiano sempre».
Da quanto tempo non li vede?
«Dallo scorso Natale».
Ha raccontato di sentirsi in colpa.
«La lotta al senso di colpa è qualcosa che non ho ancora risolto. Per me questo non è un lavoro, è una forza che dà senso alla mia vita. Non mi cambierei con nessun’altra persona e non vorrei stare in nessun altro luogo. Ringrazio Dio per essere nata qui, ma ho dovuto portare via i miei tre figli dal Venezuela in un momento in cui sentivo che la loro vita era in pericolo (distoglie lo sguardo dallo schermo; ndr). Se fossero rimasti con me, non sarei riuscita a mandare avanti il mio lavoro per il Paese».
A che cosa ha rinunciato?
«Sono stata l’unica madre non presente alla loro laurea. Il piccolo mi consolava: “Mamma tu sei qui” (indica lo schermo sul telefono; ndr) e metteva la mia foto, “sei l’unica mamma che è salita sul palco con me a ricevere il diploma”».
Lei prega?
«Prego e anche più di prima».
Che cosa chiede?
«Chiedo a Dio che si prenda cura di me, che mi dia serenità, lucidità, umiltà e forza per prendere le decisioni giuste. Questo è un momento molto duro, ma apprezzo di più la famiglia, non ho mai apprezzato come adesso un abbraccio».
Come mai la chiamano Lady di ferro?
«Non lo so (ride; ndr)».
Dicono che somigli un po’ a Margaret Thatcher, si ritrova?
«In questi anni non ho curato molto i sentimenti. Ero un po’ frenata, avevo una specie di corazza. Poi mi sono ritrovata circondata di gente, baci, abbracci, carezze, canti. Le persone si avvicinavano per confessarmi le loro paure, i loro desideri. Aprendo il loro cuore sono riuscite ad aprire anche il mio. Piangevano e piangevo».