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 2025  ottobre 10 Venerdì calendario

Intervista a Nadia Battocletti

Nadia Battocletti corre sempre. È impossibile starle dietro anche quando parla perché va velocissima perfino con la voce. Raggiunta mentre sta per imbarcarsi su un volo per la sua mini vacanza palermitana, la 25enne trentina fresca vincitrice di due medaglie agli ultimi Campionati Mondiali di Tokyo racconta con entusiasmo della sua infanzia, della passione per gli studi pari a quella per lo sport, della famiglia mediterranea e al tempo stesso montana, di Cavareno in Val di Non dove lei, medaglia d’argento olimpica nei 10 mila metri, prima donna azzurra a laurearsi campionessa europea sulle distanze dei 5 mila e 10 mila metri nella stessa edizione, quella di Roma 2024, è cresciuta. «Tra poco darò l’ultimo esame, quello di Geotecnica, sono appena stata ad ascoltare l’orale di altri studenti. Voglio arrivare preparata».
È un secchiona anche negli studi.
«Amo ingegneria, soprattutto la sua capacità di essere sostenibile. Prediligo le architetture in legno, lo studio dei materiali che possono rendere meno costose le costruzioni, la fisica tecnica. Vincere medaglie nello stadio di Tokyo progettato dal grande Kengo Kuma ha reso quei successi più belli».
Si immagina ingegnere al termine dell’ultima corsa?
«Adesso non lo so ancora, però sono attratta dall’integrazione tra la natura e l’architettura all’interno delle città. Non sono dotata di fantasia o idee strabilianti, mi reputo razionale, portata per i calcoli, l’ingegneria potrebbe essere la mia destinazione futura».
È vero che ci vede poco e porta le lenti in gara?
«Sono leggermente miope e astigmatica, però vedo abbastanza bene. Soltanto negli stadi grandi con tutte quelle luci puntate addosso si fa fatica. Le gare di atletica sono diventate uno show, tutti quei faretti e telecamere mi danno la sensazione di vedere tutto un po’ offuscato, come quando hai appena pianto».
Non le piace il contorno di esagerato intrattenimento alla competizione sportiva?
«Dopo le gare sì, ma quando entro nello stadio, sono minuziosa e attenta a quello che devo fare, i flirt col pubblico li rinvio a dopo il traguardo».
È un atteggiamento che nasce dalla sua timidezza?
«Sono nata come persona riservata, poi con le esperienze e la crescita mi sono aperta di più. Sono figlia unica, anche solo per andare da un altro bimbo a giocare, chiedevo alla mamma di accompagnarmi. Decisivo è stato diventare rappresentante prima di classe o poi di istituto».
C’è tanta curiosità per il suo regime alimentare. Cosa mangia per andare così forte tanto a lungo?
«In verità, quello che mangiano gli italiani. Non seguo restrizioni specifiche, il mio è uno sport di resistenza, perciò devo dare continuamente benzina al corpo. L’asciuttezza sulla linea di partenza dipende dalla tensione e dai tanti allenamenti. Comunque, mi nutro di insalate, pastasciutta, mangio anche tanti dolci. Vado matta per i risotti di mia madre con zafferano, tartufo e taleggio, oltre a una varietà più delicata con pere, mele, noci e rosmarino».
Sua madre, Jawhara Saddougui, marocchina, è stata una mezzofondista.
«È stato un vero privilegio per me avere un genitore espressione di un’altra cultura, quella nordafricana. Lei ha saputo affrontare sfide con un carattere forte e dolce. E mi ha fatto conoscere a fondo la realtà dalla quale proviene: è la nona di dodici figli, l’unica ad aver avuto una figlia soltanto. Quando andavo dai nonni, a Taourirt, nella provincia di Oujda, mi sembrava un parco giochi stare insieme ai tantissimi cugini».
Lei parla perfettamente la lingua araba.
«Mi serve qualche giorno di allenamento linguistico e ritrovo tutte le parole. Alle Scuole Superiori ho voluto seguire lezioni per migliorare la scrittura e la lettura, i modi di dire in arabo sono infiniti. Sono sempre stata io a scegliere di calarmi in quella cultura, mai ho ricevuto un’imposizione o influenza materna».
È andata così anche con la religione? Lei è musulmana praticante.
«Una decisione istintiva, naturale. Da bimba ero incuriosita dai dettami della quotidianità religiosa, ad esempio l’abitudine di non mangiare carne di maiale. Mi sono avvicinata sempre di più all’Islam con gradualità e convinzione».
Questa sua fede le ha creato problemi in Italia?
«No, piuttosto reazioni intelligenti, volte a capire nel profondo questa scelta. Io penso che dialogo e comprensione possano portare al miglioramento dei rapporti tra le religioni. Bisogna lavorare sulla comunicazione di questo aspetto».
Farsi allenare dal padre nella storia dell’atletica italiana ha cagionato spesso scontri e incomprensioni. Con suo papà Giuliano come regge lo stress?
«Io pretendo tanto e do tanto, però non litigo mai con lui, anche perché non so niente di allenamenti, faccio l’atletica come lavoro, ma se mi si chiede di impostare una settimana di training, non so da dove iniziare. Verso di lui c’è fiducia e cecità».

Ha lasciato la sua casa da studentessa a Trento divisa con una commercialista.
«Non devo più seguire le lezioni, perciò non avrebbe più senso. Veronica non voleva mai uscire a correre con me, ama lo sci di fondo. Mi ha presentato il mio fidanzato, Gianluca Munari, anch’egli sciatore, quindi per me essere la sua coinquilina è stata una fortuna. Il mio fidanzato è una persona responsabile, ha compreso il valore della mia attività sportiva, si sta dimostrando un pilastro fondamentale della mia vita».

Quanto corre ogni settimana?
«Dipende dalla gara che sto preparando. In media 100 chilometri a settimana. La fatica, quando pratichi uno sport di endurance, la devi fare tua, la sopportazione dello sforzo non arriva da un giorno all’altro, ma poi a forza di allenarti la conquisti. In gara mi parlo, dicendomi di non mollare. Ripenso ai sacrifici fatti, e mi dico: “No, adesso le resto attaccata, non mi stacca”. Certamente, conta tanto anche l’intelligenza tattica».
Si vede genitore presto, come accadde a suo padre e madre?
«La mamma mi ha avuto a 23 anni, papà ne aveva solo uno in più. Io penso che lo diventerò più avanti. Mamma smise a livello professionistico, ma dopo la mia nascita ha ripreso disputando gare su strada, mezze maratone. Seguivo papà nelle sue gare, gli correvo incontro quando lo vedevo spuntare nei pressi della linea del traguardo».
Però avrebbe potuto essere una tennista professionista, la Sinner trentina.
«L’ho praticato per cinque anni, e off season gioco ancora. Sono brava. Chissà, avrei potuto diventare professionista, però quando ho dovuto scegliere, non ho avuto dubbi. Il mio adorato cane, che adesso non c’è più, lo chiamai Roger in onore di Federer».
Nel tempo libero lei gioca a bowling.
«Ne ho poco, però è vero, quel gioco mi rilassa. Adoro le camminate in montagna coi miei genitori, uscire a cena con loro».
E poi c’è il ballo. Nadia si scatena danzando la salsa.
«Per il viaggio di laurea andrò a Porto Rico perché adoro la musica latino americana, e le figure di bachata, oltre al reggaeton. Devo sempre avere qualcosa che fa da contrasto alla mia razionalità. Ad esempio, io sono una quadrata, ma prima delle gare mi dimentico puntualmente di rinnovare il certificato di idoneità sportiva».
Le bambine le spediscono a casa i disegni. Battocletti è un modello di serietà e applicazione.
«Se non si investe nei giovani, il mondo non ha futuro, perciò appena posso vado a parlare nelle scuole, dell’importanza di avere un hobby, praticare uno sport, seguire una passione. Voglio trasmettere l’idea del sacrificio e del distacco dai device. Io sono una fan della modalità aerea dello smartphone».
Lei lo ha capito a sette anni, quando disputò la prima gara, che sarebbe diventata una campionessa?
«Mi trovavo a un classico pranzo della domenica in un paesino della Val di Non, vicino al mio Cavareno, mamma seppe di una gara per bambini e mi chiese se volessi provare. Per me fu bellissimo il rapporto che instaurai con le altre bimbe a fine gara, coi miei compagni di classe. Il senso dello sport è proprio quello, la condivisione».