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 2025  ottobre 09 Giovedì calendario

Più figli al Sud, meno lavoro al Nord Le due Italie del Reddito di cittadinanza

Del Reddito di cittadinanza, la misura introdotta nel 2019 dal governo Conte e soppressa cinque anni dopo dall’esecutivo Meloni, che lo ha sostituito con l’Assegno d’inclusione, si è sempre parlato come di una misura per contrastare la povertà e limitare il disagio economico. D’altronde è per assolvere questo compito che era stato pensato e sostenuto dal Movimento 5 Stelle, insieme alla Lega. E anche le critiche funzionali alla sua soppressione non hanno mai negato del tutto il valore del contributo, concentrandosi semmai sull’equità di un bonus che penalizzava le famiglie con figli rispetto ai single, e soprattutto sull’efficacia di una strategia di lotta alla povertà che incorporava il rischio di disincentivare la ricerca di lavoro. Del Reddito non si è però mai parlato di un potenziale effetto secondario, non previsto dai suoi promotori, e che sta emergendo solo ora: il sostegno alle nascite.
Anche se parlare di “figli del Reddito” è una forzatura evidente, l’Iza, Istituto indipendente tedesco di ricerca sull’economia del lavoro, ha appena pubblicato uno studio sugli effetti del Rdc rispetto ai tassi di fecondità, condotto da tre economisti italiani ( Guaranteed Minimum Income and Fertility, G.P. Dachille, M. De Paola, R. Nisticò), e che offre diversi spunti di riflessione, non tanto in difesa del Reddito in sé, ma per come un sussidio di base può impattare sulle nascite a seconda del contesto. La ricerca, condotta utilizzando dati Inps, ha infatti stimato che se a livello nazionale il Reddito non ha inciso sulla fecondità, nel Sud Italia invece la probabilità di concepire un figlio nei primi due anni dall’avvio della misura è stata più alta dell’1,5% per le donne che ne hanno beneficiato, più 18% rispetto alla fecondità media del gruppo considerato. Il perché di questo risultato è l’aspetto interessante del paper, dato che chiama in causa ragioni culturali ed economiche di un territorio. Da un lato, infatti, al Sud si può parlare di norme sociali e di genere più “tradizionali” rispetto ad altre aree del Paese nello sguardo sulla famiglia e i figli come percorso di realizzazione personale. E non è un caso che l’impatto maggiore si sia avuto nei contesti con tassi più bassi di occupazione, ma allo stesso tempo con una disponibilità significativa di asili nido. È come se le donne, dove le opportunità professionali sono scarse, o il lavoro è pagato troppo poco, quando i loro compagni e mariti non hanno la possibilità o la volontà di beneficiare dei congedi parentali, ma con servizi educativi e di cura alla portata, trovassero nel contributo di un reddito di base quel supporto di sicurezza e di stabilità capace di dare forma al desiderio di figli. Interessante, in questo senso, che l’effetto si sia fatto sentire soprattutto tra chi era in affitto, dunque in condizioni più precarie, e che abbia riguardato le donne più avanti con l’età, e spesso già madri.
La teoria economica segnala che, quando non si ha un impiego, i costi-opportunità legati all’arrivo di un figlio sono inferiori, perché la “carriera” ne risente meno, e lo studio accenna a questa possibilità motivando l’aumento della fecondità solo al Sud. Tuttavia, ciò che sta emergendo negli ultimi anni, cioè la rinuncia ai figli da parte delle fasce più fragili della popolazione, ha un po’ cambiato le carte rispetto a questa prospettiva. Ora, invece, quanto emerso sembra indicare che nei contesti con minori opportunità lavorative, e in presenza di determinate norme sociali, un trasferimento di 500 euro al mese può aumentare del 20% le probabilità di avere un figlio. Da questo punto di vista il divario con il Centro-Nord è netto, come ci fossero due Italie. E lo si vede bene anche da un altro dato che la ricerca evidenzia, relativo all’impatto del Reddito di cittadinanza sull’offerta di lavoro: se al Sud il contributo non ha avuto ricadute osservabili, i beneficiari del Centro- Nord hanno invece ridotto la loro probabilità di occupazione del 7%, lavorato 4,5 giorni in meno e visto i loro guadagni calare del 10% nei nove mesi tra giugno 2019 e febbraio 2020. In un contesto diverso, cioè, il sussidio, oltre a non avere inciso sulle nascite, ha scoraggiato la ricerca di lavoro al punto da “impoverire” i suoi destinatari.
Per gli autori della ricerca, i risultati emersi «indicano che, sebbene concepite principalmente per fornire sostegno finanziario alle famiglie povere, le politiche di reddito minimo possono avere effetti positivi sostanziali sui tassi di fecondità». Una utile indicazione, insomma, «per i governi di Paesi ricchi come l’Italia, dove i tassi di fecondità sono persistentemente bassi e richiedono approcci innovativi per affrontare l’invecchiamento della popolazione e le sfide demografiche». Di certo, e in senso più ampio, quando si parla di misure pro-natalità nel nostro Paese si dovrebbe considerare che le differenze territoriali interne sono talmente forti, non solo da un punto di vista economico, ma anche culturale e sociale, che non tenerne conto, e ragionare solo su misure calate da contesti profondamente diversi e lontani anche geograficamente, può rappresentare un limite non da poco.