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 2025  ottobre 09 Giovedì calendario

Premio Nobel per la pace e presidenti statunitensi

Ci siamo. Domani mattina presto (sul fuso orario europeo) conosceremo il nome del Premio Nobel per la Pace 2025. Di tutti i Nobel questo è il più «politico», quindi è quello destinato – da sempre – a suscitare maggiori controversie. Quest’anno poi l’annuncio da Oslo sarà stato addirittura preceduto da polemiche anticipate, sulla plausibilità o assurdità di una candidatura di Donald Trump


Posso sbagliarmi ma personalmente considero poco probabile che il comitato di Oslo designato dal Parlamento norvegese voglia premiare una figura così controversa – e circondata da tanta ostilità in Europa – come Trump. Alle facili ironie su The Donald bisognerebbe però accompagnare critiche altrettanto severe sul passato. Quanti presidenti americani ricevettero l’onorificenza per dei meriti assai discutibili?


Dalla nascita del Novecento (detto anche «il Secolo americano») fino a oggi, quattro presidenti degli Stati Uniti — più un vicepresidente ambientalista, e un segretario di Stato che divenne un simbolo di «realpolitik» — hanno ricevuto il Nobel della Pace. In ognuno di questi casi, è interessante ricordare sia le motivazioni del premio, sia le obiezioni.


Theodore Roosevelt (1906). Premiato per la sua mediazione nella fine della guerra russo-giapponese (Trattato di Portsmouth, 1905), negoziato che mise fine a uno dei conflitti più sanguinosi del tempo e segnò l’ingresso sulla scena degli Stati Uniti come potenza diplomatica globale. Teddy Roosevelt è il primo presidente americano a vincere un Nobel. Il suo successo diplomatico fa credere al mondo che l’emergente America possa sostituire le vecchie potenze europee nel ruolo di arbitro internazionale. Lui incarna la fiducia progressista che vuole «civilizzare il mondo» attraverso l’intervento morale. 


L’immagine pacificatrice cozza però con la realtà del Big Stick: Roosevelt riassume la sua visione della diplomazia con la celebre frase: «Parla dolcemente, ma impugna un grosso bastone» (il linguaggio conciliante va accompagnato con la credibilità di un robusto deterrente militare). Il mediatore di pace è anche il presidente più rappresentativo dell’espansionismo americano, della costruzione del Canale di Panama, delle guerre coloniali e dell’occupazione di Cuba e Filippine.


Woodrow Wilson (1919). Viene premiato per il suo ruolo nella fondazione della Società delle Nazioni, l’antenata dell’Onu, il primo tentativo di creare un’organizzazione multilaterale per la pace dopo la prima guerra mondiale. Wilson teorizza un nuovo ordine mondiale basato sul diritto internazionale e sull’autodeterminazione dei popoli. È il leader dell’internazionalismo progressista americano. Ma fallisce subito, nell’esecuzione. La Società delle Nazioni nasce senza gli Stati Uniti: il Senato di Washington rifiuta di ratificarne l’adesione.

Henry Kissinger (1973). Non è un presidente ma la sua influenza sulla politica estera di Richard Nixon mette il segretario di Stato sullo stesso piano. Viene premiato con il nordvietnamita Le Duc Tho per gli accordi di Parigi che mettono fine alla guerra del Vietnam. Lui guida la realpolitik americana (diplomazia improntata al realismo) al culmine della guerra fredda. È anche l’architetto del dialogo con la Cina comunista di Mao Zedong. È uno dei Nobel più contestati della storia. Gli accordi di Parigi non portano una pace duratura — pochi mesi dopo il conflitto riesplode. Le Duc Tho rifiuta il premio, definendolo una farsa. Kissinger resta associato ai bombardamenti in Cambogia e Laos, al sostegno al golpe in Cile.


Jimmy Carter (2002). Il premio arriva oltre vent’anni dopo la sua presidenza. Nel frattempo lui ha costruito il Carter Center come laboratorio di mediazione, monitoraggio elettorale e lotta contro le malattie in Africa. Durante il suo mandato (1977-1981), aveva mediato lo storico accordo di Camp David fra Egitto e Israele, aprendo una parentesi di pace nel Medio Oriente. Ma il Nobel del 2002 è anche un gesto politico anti-Bush, in piena «guerra al terrore». I suoi detrattori lo accusano di ingenuità moralista e di risultati modesti durante il mandato presidenziale: la crisi degli ostaggi in Iran aveva segnato la fine della sua carriera politica.


Al Gore (2007). Premiato insieme all’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, un organismo scientifico delle Nazioni Unite). Ex vicepresidente di Bill Clinton, sconfitto da George Bush nell’elezione del 2000, Gore si è reinventato come portavoce globale della lotta al riscaldamento climatico. Il suo documentario An Inconvenient Truth collega il clima alla sicurezza e alla pace. Il comitato di Oslo viene accusato di eccessivo attivismo politico e di «premiare le intenzioni». Alcuni scienziati sottolineano che il film di Gore conteneva semplificazioni e proiezioni discutibili; un tribunale britannico segnalò nove errori di interpretazione. Gli avversari lo accusano di ipocrisia, per il suo alto consumo energetico (viaggia su jet privato) e per interessi finanziari in fondi «verdi». Molti vedono anche in quel Nobel un gesto contro Bush, riluttante a firmare il Protocollo di Kyoto.


Barack Obama (2009). «Per i suoi straordinari sforzi nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Il premio arriva appena nove mesi dopo il suo insediamento. Per il comitato norvegese, Obama è il simbolo di un’America che vuole riconciliarsi con il mondo dopo gli anni di Bush e della guerra in Iraq. Il Nobel intende premiare il ritorno al multilateralismo, la distensione con il mondo islamico, la promessa di disarmo nucleare. Ma viene accolto con tanto scetticismo. Obama riceve il premio mentre le truppe americane combattono in Afghanistan e i droni colpiscono in Pakistan e Yemen. Lo stesso presidente ammetterà che non lo meritava… ancora. Negli anni successivi autorizzerà campagne militari in Libia e Siria, e le famigerate «esecuzioni extra-giudiziali» (uccisioni di presunti jihadisti con droni e missili, senza processo, in Paesi con i quali l’America non è in guerra).


Un bilancio critico di queste premiazioni passate può ridurle, con estremo cinismo, a una sorta di concorso di bellezza dove la giuria è un panel geopolitico: il vincitore emerge come colui che riscuote la maggiore popolarità, per lo più in ambienti europei. Se vincesse Trump, però, la premiazione batterebbe di gran lunga tutti i record delle controversie passate, Kissinger incluso…