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 2025  ottobre 09 Giovedì calendario

L’ordine mondiale svanito

Si era passati dal bilateralismo al multilateralismo; ora si sta tornando indietro. Il baricentro del mondo era in Occidente; ora si sta spostando in Oriente (del tramonto dell’Occidente scriveva già nel 1918 Oswald Spengler). Da un ordine fondato sulle regole, si sta tornando a un ordine fondato sul potere. Il mondo si stava evolvendo in modo incrementale verso l’interconnessione (Joseph Nye); ora questa evoluzione è stata interrotta dal ritorno sul proscenio dei grandi Stati. Si era convinti che la globalizzazione, specialmente quella economica, moltiplicando gli scambi commerciali, assicurasse la pace; ci si accorge che essa non basta ad evitare le guerre. Si erano sviluppati circa duemila regimi regolatori globali; ora alcuni Stati ne escono, altri non osservano i loro dettami. Ottant’anni fa si decise di dare il ruolo di protagonista all’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu); ora quel ruolo è svolto dai grandi Stati. Ci siamo illusi, a partire dalla rivoluzione francese, che la storia del mondo avesse uno sviluppo lineare verso il progresso, notiamo che si fanno passi indietro. Pensavamo che la democrazia fosse una macchina che si muove da sola, stiamo scoprendo che è un organismo con molti difetti, uno dei quali è la possibilità di regredire.
Se il vecchio ordine mondiale è finito (Joseph Stiglitz), si sta affermando un nuovo ordine mondiale?
P er avviare una riflessione su questi grandi interrogativi bisogna mettere insieme sistemi politici nazionali e ordini giuridici sovranazionali, e capire quello che sta accadendo sotto i nostri occhi.
Comincio dall’Onu. È stato istituito da 50 Stati ottant’anni fa: ha quindi una vita di tre volte più lunga della Società delle Nazioni, che l’ha preceduto. Ha lo scopo principale di mantenere la pace nel mondo, ma in questo periodo vi sono state 250 guerre. Ha 193 Stati membri, più di 130 mila dipendenti, costa quasi 69 miliardi di dollari per anno, ha 16 agenzie specializzate, sei fondi, ma non ha un proprio esercito. È più un «forum» di discussione che un organismo di decisione. Ha avuto successo nei compiti secondari, quali decolonizzazione, tutela dei diritti umani, sanità, cultura, iniziative per il clima, ma non è riuscito a realizzare lo scopo principale, quello di mantenere la pace, come si è visto a Gaza.
Non stanno meglio gli altri grandi organismi sovranazionali. Uno di questi è la Nato, istituita nel 1949 con 12 Stati (ne riunisce oggi 32, di cui trenta europei e due nordamericani) e passata attraverso numerose crisi, come quella innescata da de Gaulle. Oggi lo scetticismo francese e le dichiarazioni separatiste di Trump hanno segnato l’inizio di una nuova crisi.
Non sta meglio l’Unione europea, un organismo sbilenco, malato di gigantismo da un lato e di nanismo dall’altro. La presidente del Parlamento europeo ha recentemente osservato che ha adottato nell’ultima legislatura 13 mila provvedimenti legislativi contro i 3 mila del Parlamento americano. Dall’altra parte, ha un bilancio modestissimo, non può quindi svolgere quella funzione estrattiva, distributiva ed allocativa che svolgono tutti i poteri pubblici, ed ha procedure di decisione troppo complesse. Per comprare insieme, come si è fatto per i vaccini; per indebitarsi insieme, come si è fatto per il programma «Next Generation EU»; per difendersi insieme, come si dovrà fare per la sicurezza, occorre mostrare che è nell’interesse nazionale trasferire compiti a livello sovranazionale, e quindi introdurre un sistema di convenienze in cui, tra Unione e Stati nazionali, vi sia un equilibrio tra dare ed avere nel quale prevalga l’avere, a favore degli Stati.
Nel mondo, intanto, crescono altre alleanze come l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai-Sco, una grande organizzazione euroasiatica, che raccoglie il 42% della popolazione mondiale e il 27% del prodotto interno lordo. Avviata nel 1996, costituita nel 2001, ha dato prova di recente, in Cina, della sua coesione.
Infine, nel mondo si riaffacciano i protagonisti di una volta, le grandi potenze statali, che fanno valere la forza in luogo dell’ordine e che erigono barriere dove si cercava di abbatterle. Il Paese che ha insegnato la democrazia al mondo, gli Stati Uniti, sta vivendo una torsione autoritaria non ignota alla sua storia (si pensi al presidente Andrew Jackson nella prima metà dell’Ottocento, al maccartismo nel 1950-1955 e alla «presidenza imperiale» – una critica all’espansione del potere esecutivo statunitense – studiata dallo storico Schlesinger jr nei primi anni ’70).
Un romanziere americano, premio Nobel per la letteratura, Sinclair Lewis, nel 1935, per dimostrare che la democrazia è fragile, scrisse un romanzo distopico intitolato «Non può accadere qui» mostrando come il presidente americano potesse diventare un dittatore. Il nuovo presidente ha innescato una vera e propria crisi costituzionale, sconcerta per la sua imprevedibilità, non si sa se per un progetto o a caso. Verso l’esterno, si slega da trattati e alleanze; all’interno, cerca di smantellare lo Stato amministrativo e segue il detto «bisogna licenziare alcuni per creare il timore nel cuore degli altri». Comunica all’Unione europea «non pensiate che la Nato vi protegga se voi imponete limiti alle nostre piattaforme digitali»: così, mentre difende il nazionalismo con i dazi, difende la globalizzazione (tutta americana) delle Big Tech, sostenendo che non debbono essere tassate, né sottoposte a regolazione europea.
Questa non è la fine della storia. La disgregazione dell’ordine mondiale non è irreversibile. Comporta però una ridefinizione dei ruoli. Il futuro dipende anche dalla capacità di comprendere quello che sta accadendo, i punti di forza e quelli di debolezza. Dentro le democrazie vi sono zone fragili ed elementi di autocrazia che possono prendere il sopravvento. Le relazioni internazionali sono plasmate dalle idee, prima che dalle forze materiali. Lo storico dell’antica Grecia Polibio insegna che nella storia vi sono cicli, sviluppi e regressioni.