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 2025  ottobre 08 Mercoledì calendario

Gaza divide gli ebrei americani. E il conflitto approda pure sul lettino degli psicanalisti

Due anni dopo gli attacchi del sette ottobre, la seconda comunità ebraica più grande al mondo dopo Israele, quella americana, si scopre profondamente divisa sulla questione palestinese: molto più di quanto lo fosse prima del conflitto. Lo racconta un sondaggio del Washington Post che fotografa una spaccatura netta: il 48 per cento disapprova le azioni militari di Israele. Il 46 per cento, approva.
La responsabilità della guerra è data un po’ a tutti: il 91 per cento punta il dito contro Hamas, che per il 94 per cento ha compiuto crimini di guerra. Ma contemporaneamente l’86 riconosce responsabilità gravi anche a Benjamin Netanyahu, con il 61 per cento che ritiene che anche Israele abbia compiuto crimini di guerra. D’altronde, il presidente israeliano è visto negativamente dal 68 per cento degli intervistati.
E già che ci siamo, il 61 se la prende anche con il presidente americano Donald Trump che pure aspira al Nobel per la Pace: non ha fatto abbastanza, dicono. Ben il 39 per cento si spinge a parlare di genocidio: il 51 no. E il 59 creda alla necessità di una soluzione a due stati. Tutti concordano nell’affermare che il rapporto tra ebrei americani ed ebrei israeliani è in crisi. Una spaccatura che entra fin nel privato: il 36 per cento ammette di aver avuto sull’argomento serie liti in famiglia
. E ancora non basta: un’inchiesta del New York Magazine si spinge oltre: le posizioni opposte sono approdate anche sul lettino dello psicanalista. Provocando “divorzi” fra medici e pazienti: coi sionisti che non tollerano i pro-Pal e viceversa.
Quando la divisione arriva in terapia
La questione è molto concreta a New York, scrive la rivista della Grande Mela. Qui, infatti, la storia della professione è strettamente legata alla diaspora ebraica, importata o influenzata da psicanalisti ebrei europei come Sigmund Freud, Viktor Frankl, Alfred Adler, e gli altri che la diffusero mentre fuggivano dalle persecuzioni naziste negli anni 30 e 40. Un sondaggio dei primi anni 2000 ha poi stimato che in America è ebreo uno psicanalista su tre, rispetto al 13 per cento dei medici, una cifra particolarmente impressionante se si considera che solo il 2,4% della popolazione americana è di fede ebraica. «Gli ebrei, osservanti o meno, fanno parte di una cultura introspettiva che considera la responsabilità personale un elemento chiave» spiega Leonard Saxe, psicologo sociale e studioso della vita ebraica contemporanea alla Brandeis University.
Sia nella comunità newyorchese che in quelle del resto del Paese, si sono formate fazioni ostili: col risultato che tutti si sentono giudicati, alienati e arrabbiati. Alcuni ebrei, antisionisti ma osservanti, raccontano di non riuscire più a trovare una sinagoga che li accolga. Altri, hanno paura di attacchi come quello avvenuto a Manchester, in Inghilterra, nel giorno di Yom Kippur. «I termini sionismo e antisionismo sono diventati etichette di posizioni morali inequivocabili», dice al magazine Halina Brooke, psicoterapeuta e fondatrice del Jewish Therapist Collective, che online aiuta i pazienti a trovare terapeuti ebrei e offre supporto a entrambe. «È pesante essere visti dai propri pazienti come l’impersonificazione del peggio dell’umanità».
Si sa, relazioni tese, sensi di colpa, solitudine, rabbia, angoscia, paura sono da sempre i sentimenti affrontati ed esplorati in quel luogo teoricamente sicuro che è lo studio di uno psicoterapeuta. Ma ora, racconta appunto l’articolo, nominare Israele o Gaza basta ad infrangere la fiducia reciproca medico-paziente. «So di situazioni in cui il terapeuta ha parlato di genocidio e il paziente è andato nel panico, e viceversa», racconta Yael, una terapeuta ebrea che lavora sia con pazienti sionisti che antisionisti a New York. «Ci sono psicoterapeuti che abbandonando i loro pazienti perché gli dicono: “Mio marito è israeliano e sto soffrendo”, o “Mio padre è israeliano”, o ancora “Sono sionista ed è dura per me”. Queste persone, ricevono poco dopo lettere d’addio dai loro terapeuti dove si afferma che i valori non sono allineati».
La polemica nei collettivi professionali
La polemica si estende oltre gli eleganti studi di Manhattan, tappezzati di libri di John Gottman, il guru della stabilità amorosa. Le controversie sono infatti già approdate anche all’interno degli organismi organizzativi professionali degli psicoterapeuti, comprese l’American Psychological Association e l’International Psychoanalytical Association, dove solitamente ci si limita a discutere di argomenti da portare alle conferenze o quali tipi di dichiarazioni ufficiali debbano essere pubblicate. Sui social, poi, da Facebook e Reddit, è tutto un pullulare di richieste per professionisti con idee simili: «Dove posso trovare uno psicoterapeuta ebreo che non sia anti-israeliano?»; «Il mio psicoterapeuta è un estremista sionista»; «Qualche altro psicoterapeuta ebreo si sente solo come me?».
E davvero in tanti stanno giungendo alla consapevolezza che alcuni argomenti sono troppo delicati per essere trattati in studio. Eyal Rozmarin, psicologo clinico e psicoanalista con studio a Tribeca, identificato dal settimanale come israeliano-palestinese, spiega che la tensione che gli ebrei riversano nella terapia è particolarmente intensa, nonostante la rottura abbia scosso anche molti non ebrei: «Ottant’anni fa eravamo al centro di una storia terribile che ha influenzato il mondo intero e scritto le linee guida del diritto internazionale, ora siamo di nuovo al centro, ma in senso opposto. Ci troviamo in una posizione dolorosa e delicata».
L’importanza del background del terapeuta
Questo dipende anche dal fatto che negli ultimi anni anche la tecnica è cambiata: e rivelazioni personali da parte del terapeuta – un tempo tabù – sono viste come potenzialmente utili alla pratica terapeutica dei professionisti, mezzo per aiutare i pazienti a relazionarsi e ad approfondire. Insomma, in varia misura, il background e l’esperienza del terapeuta sono ormai entrati nelle conversazioni, e i pazienti desiderano sempre più sapere chi è nella vita la persona a cui affidano segreti e paure. E questo, ora, mette alcuni professionisti in difficoltà.
Philip Herschenfeld, psichiatra e psicoanalista che esercita nell’Upper East Side racconta che non parla usualmente di politica con i pazienti, ma che alcuni cercano conferme ai loro timori: «Chiedono: “Sei indignato per quello che sta facendo Netanyahu? Sei indignato per quello che ha fatto Hamas?” Cose del genere». Lui non si espone. E affronta le domande in modo analitico, cercando di capire cosa c’è dietro: «Sta cercando di scoprire se siamo dalla stessa parte?».