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 2025  ottobre 08 Mercoledì calendario

La Francia verso l’incognito

La caduta di François Bayrou, la grandezza del debito pubblico, la rabbia popolare e le risse politiche, con contorno di rese di conti personali, ci hanno fatto scrivere per settimane che la Francia era sull’orlo del baratro. Dopo la caduta del governo Lecornu, il più breve della storia, poco più di 836 minuti, è il caso di concludere che adesso la Francia nel baratro ci sta scendendo davvero e non si capisce se ci siano freni o la risalita sia ancora possibile. Baratro istituzionale, s’intende, alimentato dall’instabilità politica. Di fatto la crisi si è avvitata su se stessa, appare senza via d’uscita, paralizza i partiti, impone probabilmente le elezioni anticipate a distanza di pochi mesi dalle precedenti, forse prelude alle dimissioni del presidente Emmanuel Macron, sempre più isolato e impossibilitato a indicare una via che non sia subito sbarrata – come è successo lunedì – dall’incapacità o dall’impossibilità delle forze politiche di percorrerla. Dimissioni reclamate dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, che peraltro potrebbero votare una mozione di destituzione. Un passo da far tremare i polsi per le conseguenze devastanti sul sistema.
Nessuno fa un passo indietro e ciascuno sembra condurre una strategia in proprio, rischiando però di restare con il classico cerino corto in mano. Il partito socialista è rimasto fuori dal governo, ha cercato fino all’ultimo di imporre due misure faro (la tassa sui super ricchi e la riforma delle pensioni). In cambio, era pronto a rinunciare a presentare una mozione di censura che avrebbe messo subito il governo nei pasticci. Ma adesso teme le elezioni anticipate, essendo abbastanza scontata la vittoria dell’estrema destra di Jordan Bardella e Marine Le Pen, in testa secondo tutti i sondaggi. D’altra parte, quest’ultima non può essere candidata dopo la condanna all’ineleggibilità nel processo sulle false assunzioni di impiegati del partito. Di conseguenza, in attesa del processo d’appello a gennaio, mantiene un atteggiamento attendista, mentre si consuma anche uno scontro interno, essendo ormai conclamate le ambizioni presidenziali di Bardella.
In mezzo al guado ci sono finiti anche i repubblicani che di fatto hanno provocato la rapida caduta di Lecornu per non avere accettato il ripescaggio nel governo con incarico alla difesa del «traditore» Bruno Le Maire, passato tempo addietro al movimento di Macron e additato come il principale responsabile del debito fuori controllo. In questo scenario a tinte fosche, si agita contro tutto e contro tutti Jean Luc Mélenchon. Il leader dell’estrema sinistra vorrebbe sia lo scioglimento dell’Assemblea sia le dimissioni di Macron. L’obiettivo, al pari di Marine Le Pen, è capitalizzare la rabbia popolare e l’opposizione al presidente. Anche per Mélenchon il sogno è l’Eliseo, ma potrebbe realizzarlo soltanto con un’unità delle sinistre, per ora improbabile.
A questo punto, come sempre del resto, tutti gli occhi sono puntati su Macron e sulle decisioni che prenderà nelle prossime ore. Ammesso che sia ancora in grado di prenderne una praticabile. Come detto, i margini di manovra sono ridottissimi. Il presidente potrebbe rassegnarsi a sciogliere ancora una volta l’Assemblea. In alternativa cerca ancora di prendere tempo rimettendo in pista il governo Lecornu, in attesa della prossima scadenza, le amministrative di primavera. Secondo prassi, un governo dimissionario rimane in carica per gli affari correnti, gestiti dunque dai ministri appena nominati. Secondo alcune interpretazioni, Macron potrebbe andare a caccia di una figura istituzionale, di un uomo di prestigio e super partes, genere Mario Draghi, ma la Francia resta un Paese senza una tradizione di compromesso e di coalizione come avviene in Italia o in Germania. Il sistema istituzionale francese, basato sul semi-presidenzialismo, si rivela meno flessibile e meno resiliente rispetto al modello parlamentare italiano, spesso criticato, ma che ora sembra più efficace nella gestione delle crisi profonde.
La Costituzione francese era stata pensata proprio per evitare questo tipo di situazione. Quando il generale De Gaulle la propose nel 1958, la Francia aveva visto succedersi 24 capi di governo in undici anni. Il sistema elettorale maggioritario avrebbe dovuto consentire l’emergere di chiari rapporti di forza in Parlamento. Invece, come ha detto il sondaggista Jérôme Fourquet siamo di fronte a una Francia «arcipelago». Un modo per dire che si sovrappongono ormai diverse realtà e identità che non hanno più molto in comune.
Certo è che il secondo mandato di Macron si rivela un calvario. La Francia ha accumulato mille miliardi di debito supplementare, raggiungendo la cifra record di oltre 3.400 miliardi, cinquantamila euro sulla testa di ogni francese. In pratica, da Giscard d‘Estaign in poi, la Francia spende un po’ più delle risorse disponibili, aggravando il deficit. Sono cifre che sono risuonate in queste settimane, la colonna sonora della crisi politica che ha visto la caduta del governo di François Bayrou e ora di Sèbastien Lecornu.
La crisi politica è alimentata dalla litigiosità dei partiti e dalla scomposizione di un quadro che per decenni aveva permesso l’alternativa e la dialettica fra destra popolare moderata e sinistra riformista. Sommandosi alla crisi finanziaria, diventa inevitabilmente crisi sistemica. Il che è una pessima notizia per i francesi ma anche per l’Europa, in un momento in cui i destini del Vecchio Continente avrebbero bisogno di guide sicure e di stabilità. La prospettiva che il Paese sia domani guidato da una forza non più anti sistema, ma dichiaratamente sovranista ed euroscettica, per di più ambigua negli atteggiamenti verso la Russia, resta l’ipotesi peggiore, ammesso che ce ne siano ancora altre.