Corriere della Sera, 8 ottobre 2025
Intervista a Carlo Cracco
Carlo Cracco, auguri, oggi compie 60 anni. Come sta?
«Sto meglio adesso di quando ne avevo 40. Mai stato così bene: non ho né rimpianti né rimorsi. Il tempo è misurato dai figli: vedi che crescono e capisci che diventi grande».
Da Wikipedia: nato a Creazzo, 8 ottobre 1965, cuoco, personaggio televisivo, gastronomo e imprenditore. Che cosa le manca?
«Se avessi due o tre giorni per staccare sarebbe fantastico. Ho fatto poca vita sociale: sono sempre in giro, ma dietro le quinte. Quando la sera esco dal ristorante vedo un mondo che se la gode: sono quelli che io metto a tavola».
Un ricordo da piccolo.
«A 5 anni in colonia a Riccione con mio fratello più grande, dove i ferrovieri come mio papà mandavano i figli. Stavo da Dio. La domenica ci davano la torta diplomatica, l’unica gioia sul cibo, per il resto un disastro. Tornavo con tre chili in meno: per me che ero in lotta con la bilancia era un traguardo».
Quando si è cominciato ad appassionare al cibo?
«Quando mia madre ha dimezzato le porzioni, per aiutarmi a perdere peso. Ho capito che se volevo mangiare dovevo infilarmi in cucina con lei che era un’ottima cuoca».
La svolta.
«Facevo il chierichetto e volevo andare a fare le medie al seminario: ma in casa non c’erano soldi per scuole private. Allora scelsi quella meno triste, l’istituto alberghiero».
Sliding doors: se fosse andato avrebbe intrapreso la carriera ecclesiastica?
«E chi lo sa: sono cresciuto a Vicenza, tra democristiani. Fatto sta che andai a Recoaro Terme, a 52 chilometri da casa».
Il suo talento è venuto subito fuori?
«Il primo anno, nel primo trimestre avevo quattro in cucina. Ai miei, ai colloqui, dissero: “Va bene in tutto tranne che in cucina. Mandatelo a fare pratica”. Il 90% dei miei compagni era figlio di gente del settore: a me che parlavo a stento il dialetto sentirmi dire “plonge” era arabo».
Dove la mandarono?
«Quando tornavo a casa, il sabato e la domenica, andavo da Remo, un ristorante noto di Vicenza: da 4 in pagella sono passato a 8. Facevo 12 ore di lavoro e mi addormentavo quando toccavo il letto».
Milano.
«Dopo la fine del terzo anno lasciai la scuola per andare a lavorare da Remo. Feci il militare, poi tornai al ristorante: a 19 anni tenevo in mano la cucina. Ma non ero felice: “È tutto qua?”, mi chiedevo. Mia sorella maggiore mi parlò di un corso di Gualtiero Marchesi alla scuola di cucina Altopalato. Andammo a cena da lui e gli chiesi subito se potevo lavorare con la sua brigata. Mi cucinò a fuoco lento, ma se mi metto in testa una cosa di riffa o di raffa ci arrivo».
Come lo convinse?
«Mi iscrissi alla scuola di Altopalato per poterlo incontrare ogni tanto. Facevo il pendolare, un giorno sì e un giorno no, da Vicenza a Milano. Partivo con il treno delle 8 e tornavo con quello di mezzanotte a Venezia, poi la corriera mi lasciava alle 2 di notte a Vicenza. Dopo un mese mi chiamò: in cucina trovai Davide Oldani. Era un tipo più aperto di me, io ero campagnolo».
Che cosa le ha insegnato Gualtiero Marchesi?
«A capire i bisogni delle persone che abbiamo davanti. Era un intellettuale della cucina: pretendeva che ci relazionassimo in modo adeguato, non ammetteva che lo chef fosse un semplice bruciapadelle. Tutto quello che noi abbiamo fatto in seguito lui l’aveva già fatto: libri, tovaglie e stoviglie firmate, persino la tv. Nel 1987 condusse una trasmissione di cucina in diretta: lo seguì Davide, io mi vergognavo da morire».
Ma poi anche Marchesi le è andato stretto.
«Ero arrivato all’apice di quello che si poteva fare in Italia. Fu lo stesso Marchesi a consigliarmi di andare in Francia, che per lui era la Mecca, da Ducasse. Ci rimasi per 4 anni».
La sua famiglia la supportava?
«Una volta mio padre venne in cucina, di sorpresa. Vedendo che lavoravo sempre e non guadagnavo nulla voleva vederci chiaro. Per me il denaro era secondario, contava fare esperienza: così dopo Parigi fu la volta dell’Enoteca Pinchiorri, dove prendemmo tre stelle Michelin, e poi dell’Albereta, dove venne la figlia della cuoca di Lady D, per farsi dare delle ricette per la principessa. Ma mancava qualcosa».
Un posto con il suo nome?
«Con Bruno Ceretto aprimmo ad Alba Le Clivie che prese subito la stella. Lo rivendetti a un ottimo prezzo in due giorni, dopo che i fratelli Stoppani mi proposero di aprire a Milano in via Victor Hugo: era il 2001 ed era nato Cracco-Peck. Qualcuno mi diede del grandioso: nessuno prima di Marchesi aveva dato il proprio nome a un ristorante».
Il primo cliente.
«Dario Mezzano: organizzò da me la cena di Natale per 50 ospiti e mi disse: “Stupiscimi”. Con Matteo Baronetto abbiamo messo a tavola da Pavarotti all’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Prenotò solo una parte del ristorante e gli cucinammo un menu milanese: un mio cliente partigiano mi chiese di poterlo salutare. Con le due stelle arrivarono tutti: da Umberto Agnelli a Matteo Renzi con Tim Cook: per loro chiusi il ristorante».
La tivù e MasterChef Italia.
«La prima volta mi chiamarono nel 2007. Ero in cucina e risposi: “Vorremmo parlare con Cracco per un provino”. Finsi di non essere io. Ci riprovarono nel 2010».
Perché accettò?
«Era un momento di crisi. C’era stato il caso Lehman Brothers, l’Italia era cupa: andare al ristorante stellato o avere l’auto costosa era peccato. Ma feci lo stesso di tutto per non essere preso: al provino fui molto aggressivo. Mia moglie Rosa mi diceva sottovoce “anche meno”. La produzione invece era entusiasta».
Perché ha smesso?
«La televisione ha riempito di nuovo il ristorante: chi veniva a cena voleva tornare a casa con una foto. Ma la televisione è ripetitiva: dopo sei anni mi ero annoiato».
Il video logora chi non ce l’ha.
«Non nel mio caso: feci solo altre due stagioni per affiancare Antonino Cannavacciuolo che doveva prendere il mio posto».
Dopo la tivù le è stata tolta una stella.
«Ero diventato pericoloso. Dicevano: se Cracco ha fatto tivù adesso lo faranno tutti».
Anche per lo spot delle patatina è stato attaccato.
«Perché non avrei dovuto farlo? Anche Marchesi mi diede il benestare. Lui stesso era stato testimonial di surgelati. Abbiamo la memoria corta e un po’ di invidia sociale».
Il ristorante in Galleria.
«Un progetto riuscito. Abbiamo avuto da Tilda Swinton a Pierfrancesco Favino. Volevamo riportare qualità in Galleria: paghiamo l’affitto al Comune. Era uno spazio malconcio, chiuso da 20 anni: ho chiamato lo studio Peregalli Sartori Rimini per sistemarlo».
Accanto a lei c’è sua moglie Rosa Fanti, nella vita e nel lavoro. Vi siete conosciuti a un evento: colpo di fulmine?
«Un colpo di culo direi. Abbiamo quasi 20 anni di differenza e quando l’ho conosciuta ho dato retta all’1 % di possibilità che potesse andare bene. Sono innamorato: con lei condivido ogni scelta e stiamo creando la nostra azienda agraria in Romagna».
Le ha rifatto il look?
«Ero talmente scarso che non ci voleva tanto».
Siete gelosi?
«Quel che basta. Io di più. Ma all’epoca di MasterChef ogni giorno al ristorante mi arrivavano lettere d’amore».
Sua moglie come reagiva?
«Mi consigliò di non aprire né WhatsApp né profili social: sarei stato più accessibile».
Le consegnerebbe il suo cellulare?
«Rosa ha il mio telefono tutto il giorno: risponde alle chiamate e agli sms. I telefoni hanno cambiato in peggio la vita lavorativa, non quella privata».
In che modo?
«Non c’è più educazione: vanno dal cliente famoso a disturbarlo per una foto. Una volta bastava un autografo e noi facevamo da tramite».
Qualcuno ha mai mandato indietro un piatto?
«È successo e sono uscito in sala per capire il perché».
Mal di pancia per il conto?
«È successo anche questo. Fa parte del teatro».
È diventato milionario?
«Sfatiamo questo mito: a fare il mio mestiere non diventi ricco. Sopravvivi bene».