Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 08 Mercoledì calendario

«Il mondo del calcio è pronto ai coming out come il mio. Purtroppo in tanti mi scrivono: sono gay ma ho paura di dirlo»

Jakub «Kuba» Jankto ha cambiato vita a 29 anni. Basta calcio giocato, a causa di una caviglia dolorante e di un figlio lontano con cui passare più tempo: l’unico giocatore di livello internazionale ad aver raccontato al mondo di essere gay mentre era ancora in attività, è tornato a casa, a Praga.
«Sto studiando italiano e spagnolo per prendere il certificato di lingua straniera, quando giocavo non ci pensavo, per me esisteva solo il calcio».
Come ha riorganizzato la sua vita?
«La mia occupazione principale è curare gli investimenti immobiliari che ho fatto in questi anni e poi alleno oltre ottanta ragazzini in due società diverse, nel Dukla Praga e nel Cafc Praga, che è un’accademia dello Slavia, la squadra dove sono cresciuto prima di arrivare molto giovane in Italia, all’Udinese».
Lavorare con i bambini le piace?
«Sì era uno dei miei sogni da sempre. È successo prima del previsto».
Tra poco allenerà anche suo figlio, che ha 6 anni?
«In realtà lo sto già allenando nel Dukla».
Teme che in futuro possa avere qualche problema, magari con i compagni, per il fatto di avere un padre gay?
«Può succedere, gli idioti ci sono sempre. Con i piedi non è come il padre, ma io alla sua età non ero così intelligente come lui, mi creda. Ho smesso anche per essergli a fianco nella sua crescita».

Il rapporto con la sua ex compagna com’è?
«Normale. Ma ci sentiamo solo per le cose che riguardano nostro figlio».
Quando ha fatto coming out era in Repubblica Ceca. Come l’ha vissuto?
«Il primo mese è stato difficile, perché non sapevo come avrebbero reagito le persone, ma dopo un paio di settimane ho visto che tutti mi hanno dato una mano, anche perché il mio comportamento era positivo: se mi fossi comportato male, magari sarebbe stato diverso. A Praga mi fermano un sacco di tifosi italiani e sono sempre contenti di vedermi».

Quando ha capito di non poter giocare più per il dolore alla caviglia cos’ha provato?
«Mi sono fatto male contro il Genoa, il primo anno con Ranieri. Poi le ho tentate tutte per stare meglio: mi sentivo anche pronto a giocare con il dolore, ma mister Nicola non mi ha fatto entrare in campo neanche un minuto e allora ho pensato che non valeva la pena andare avanti con questa lesione di terzo grado ai legamenti della caviglia sinistra, che non si può operare. Anche quando alleno i bambini o semplicemente cammino, mi fa male».
È giusto dire che i tre anni successivi al coming out sono stati comunque i migliori della sua carriera, perché finalmente si è sentito libero da un peso?
«Giustissimo, perché non dovevo nascondere niente, potevo andare con il mio partner ovunque. Prima non potevo vivere come volevo, non mi sentivo me stesso. E poi erano cominciate a girare le voci, che forse ero gay, e in quel momento mi sono sentito troppo male: ho deciso che dovevo dirlo e ho registrato quel video che ha fatto il giro del mondo».

Quanto deve a Ranieri come uomo e come allenatore?
«Abbiamo un rapporto speciale, ma mi massacrava sul campo (ride). Mi ha fatto giocare, crescere, con lui ho indossato la fascia di capitano della Samp: un grande onore».
Quando lei è arrivato a Cagliari, Ranieri disse: «Non avrò bisogno di proteggere Kuba dagli idioti che ci sono in giro, perché lui è forte dentro». Che ne pensa?
«Quando il tuo allenatore dice una cosa così ti dà un bell’aiuto. Aveva ragione: dal coming out erano passati due anni e dentro di me avevo una forza nuova. E ai tifosi interessava soprattutto quello che avrei fatto in campo».
Nell’unica intervista che ha fatto nei due anni di Cagliari, al podcast della Bbc, ha raccontato di essere stato trattato in Italia «meglio di quello che pensavo». Lo ha detto con stupore?
«Sinceramente sì. Gli scemi che ti insultano sui social ci sono sempre, ma la vita reale è un’altra cosa e quando tu ti comporti bene e rispetti il tuo lavoro, allora ricevi rispetto. E tutti mi hanno sempre voluto bene, anche ad Ascoli, Genova e Udine».
A Cagliari portava il suo partner nelle uscite con gli altri giocatori e le famiglie?
«Non si usciva molto con la squadra al completo e mai con le famiglie. Lo faccio adesso a Praga, con gli altri allenatori: loro portano le mogli e le fidanzate, io porto il mio compagno. Sono felice e sto bene con me stesso».
Josh Cavallo, calciatore australiano, che ha fatto coming out, dice che nel calcio in realtà l’omofobia è aumentata soprattutto sui social. Questo peso può essere forte?
«Io ho sempre tolto i commenti dai social e non ho mai letto nulla. Ma evidentemente se lui dice così, il problema c’è. Alcuni ragazzi gay sono molto influenzati dai social».
Invece il mondo del calcio al suo interno è omofobo secondo lei?
«No, per la mia esperienza dico di no. Se c’è un problema è fuori, non dentro al calcio».
Lei disse «spero che il mio gesto serva a dare coraggio anche ad altri calciatori». In realtà non è stato così. Che ne pensa?
«Evidentemente hanno paura del giudizio degli altri, ma ognuno fa le sue scelte. Ho provato a dimostrare ai calciatori che se fai coming out, non succede nulla. Mi sono arrivati tantissimi messaggi, che dicevano “vorrei fare come te, ma non riesco”».
Da parte di altri calciatori?
«Sì, da diversi calciatori, ma non solo. Anche da tifosi o da ragazzi qualsiasi».
Si aspetta da parte di Uefa o Fifa, un coinvolgimento nella lotta all’omofobia?
«No, ma se potrò fare qualcosa d’altro oltre all’esempio personale, sono a disposizione».
Bernardeschi ha appena detto: «Mi hanno dato tante volte del gay, ma se lo fossi non avrei problemi a dirlo e la gente deve farsi i cavoli suoi». Che ne pensa?
«Mi è piaciuto quello che ha detto. Ma se fosse così facile dirlo, dopo di me qualcun altro lo avrebbe fatto».