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 2025  ottobre 05 Domenica calendario

Io, l’osservatore di tutte le tempeste della Chiesa

Una vita si direbbe condotta sotto il segno dei padri. A cominciare da Nello Vian e poi Manlio Simonetti, il suo maestro, infine quei padri della Chiesa – Origene, Ambrogio, Agostino – che hanno reso grande il cristianesimo. C’è una certainsistenza cercata e a tratti esibita nel modo in cui Giovanni Maria Vian mi parla dei suoi trascorsi, dei referenti sentimentali e culturali. Ha insegnato Filologia patristica alla Sapienza, è stato per undicini anni direttore dell’Osservatore Romano, ha scritto libri sui pontefici. L’ultimo papa (edizioni Studium/Marcianum Press) è il lavoro più recente: una disamina delle storie di alcuni pontefici, in particolare degli ultimi due prima dell’avvento di Leone XIV: Ratzinger e Bergoglio.
La cosa singolare è che Vian riprende l’antica profezia
di Malachia, vescovo irlandese vissuto intorno al 1200.
A lui si attribuisce un testo composto da piccole
sentenze enigmatiche che si conclude con un’allusione
inquietante alla fine della Chiesa.
Perché ha sentito il bisogno di citare quel testo
“apocalittico”?
«Cominciamo col dire che con ogni probabilità si tratta
di un falso attribuito a Malachia ma in realtà scritto nel
Cinquecento. È la storia curiosa di un testo nato per
influenzare l’esito di un conclave. La cosa sorprendente
è che Ratzinger, tre anni dopo la sua rinuncia, in una
conversazione fece cenno alla profezia».
La considerò attendibile?
«Non lo sappiamo. Ma penso che l’allusione a Malachia
sia servita a Ratzinger per descrivere la crisi del
cristianesimo. È interessante quanto, in quella intervista,
disse di sé: “Io non appartengo più al vecchio mondo, ma
quello nuovo non è ancora cominciato”. Sono parole
drammatiche e disincantate, che nascondono la difficile
transizione di una Chiesa la cui lunga storia è stata
attraversata da momenti complicati».
L’allusione sulla crisi della chiesa coinvolgeva anche il pontificato di Francesco?
«Era implicito nell’affermazione di Ratzinger il
richiamo alle difficoltà del pontificato di Bergoglio».
Lei ha conosciuto entrambi i papi.
«Ne ho conosciuto anche altri».
Ma questi sono stati in un certo senso i suoi datori
di lavoro.
«In un certo senso, come lei dice, li ho serviti entrambi
accettando la direzione dell’Osservatore Romano».
Per quanto tempo lo ha diretto?
«Per undici anni. Fu Benedetto XVI a nominarmi e
quando lasciò, Francesco confermò il mio incarico».
Una volta Montanelli disse che dirigere “L’Osservatore Romano” era come guidare la vecchia “Pravda”.
«C’è molta più libertà di quanto non si immagini. E poi il
potere che la chiesa esercita è meno ferreo di un tempo».
Un assolutismo con pochi assoluti?
«Diciamo con molti relativi».
Sembrano tanti undici anni ma ci sono stati direttori molto più longevi.
«Dalla Torre lo diresse per 40 anni, Mario Agnes per 23
anni».
So che il cambio è stato improvviso. Non la avvertirono
«Un fulmine a ciel sereno».
Come ha reagito?
«Alla sorpresa è subentrata la delusione, il rammarico.
Un po’ di tristezza. Ma ho assorbito tutto tornando, senza
rassegnazione, ai miei studi di storia del cristianesimo».
Una vocazione?
«Ho respirato in famiglia quel mondo complesso,
affascinante e remoto. Apparentemente al riparo dai
contrasti, in realtà feroce in certi momenti».
Niente è mai completamente pacifico.
«A colpi di teologia si sono frantumate vite, ma anche se ne sono salvate».
Basta accettare l’idea che fuori dalla Chiesa non c’è
salvezza.
«Qualcuno ha pensato che la salvezza fosse all’esterno».
Sospetto che stia pensando a Bergoglio.
«Ma no, il pontificato di Francesco è più complesso
anche se più netto di quanto sembri».
Prima mi dica qualcosa della sua famiglia, visto che vi accennava.
«Mio padre Nello Vian, origini veneziane, è stato
segretario della Biblioteca Vaticana. Che dire? Ho
ammirato il suo impegno nella vita, intendo come
testimonianza anche religiosa. Ma una religione mai
gridata né esibita. Qualcosa di analogo l’ho ritrovato in
quello che considero il mio maestro: Manlio Simonetti.
Quanto a mio padre, aggiungerei che è stato molto
amico di Montini. Ci sono lettere molto belle tra i due.
Scoprimmo, io e mio fratello, l’esistenza di questo
scambio dopo la sua morte».
Ha conosciuto Montini?
«Bene, mi ha perfino battezzato».
Come giudica il suo pontificato?
«Paolo VI è stato il papa della modernità senza il mito
del moderno. Non era facile accogliere e gestire
l’eredità di Giovanni XXIII, lui ci riuscì pienamente».
A succedergli fu Giovanni Paolo I, che lei definisce
in un libro “Il papa senza corona”.
«Papa Luciani fu un Montini molto più ortodosso e
solo in apparenza una figura mite. È impossibile
immaginare che papa sarebbe stato».
La sua morte improvvisa scatenò le più diverse
interpretazioni.
«Le chiamerei fantasie».
Pugnali e veleni come tra i Borgia del Rinascimento.
«Certe volte la storia è un serbatoio di sorprese
romanzesche, l’ipotesi che sia stato avvelenato è
destituita di fondamento. Però in un certo senso è vero
che Luciani fu lasciato morire».
Ossia?
«Si sentì male durante una cena. Ma non venne colta la
gravità. Tentarono di chiamare il suo medico ma Luciani
si oppose e sulla quella opposizione nessuno reagì».
Una leggerezza, lei dice.
«Di più: l’incapacità di leggere quello che accadeva».
Cosa avrebbero dovuto fare?
«Imporgli la consultazione del medico. Poi la morte del
papa in quelle circostanze ha scatenato una ridda di
ipotesi complottiste. In fondo l’idea che un pontefice
fosse stato assassinato era troppo allettante per non
dar vita a libri e di film su quel mistero. Pensi al
successo di Dan Brown».
Anche all’interno della chiesa c’è chi sposa questa tesi.
«Vero, perfino un grande teologo come Hans Urs von
Balthasar si convinse che Giovanni Paolo I era stato eliminato perché intenzionato a riformare la chiesa. Ma
è solo una congettura. La verità è che quanto accadde
dopo la sua morte fu un pasticcio della comunicazione.
Dal Vaticano filtrarono notizie contraddittorie, dettagli
forniti e poi smentiti che hanno ingarbugliato le cause
della morte. Contribuendo alla leggenda».
Prima accennava all’importanza del suo maestro:
Manlio Simonetti.
«Gli devo tutto o quasi sul piano della conoscenza. È stato
uno dei più grandi storici del cristianesimo del ’900. A lui
mi indirizzò mio padre. Ero deciso a occuparmi di
letteratura spagnola. Seguii una lezione di Simonetti e
restai folgorato dal suo fascino schivo e tranquillo».
In fondo tutta la sua vita è trascorsa all’ombra dei
papi e dei testi sacri. C’è ancora una cultura cristiana?
«C’è la consapevolezza di come si sia formato il
cristianesimo: dal tronco del giudaismo e dalla sua
profonda ellenizzazione. Non trascurerei gli influssi
orientali. Infine c’è il passaggio dalla lingua ebraica a
quella greca. È in greco che i primi cristiani leggono le
Scritture. A questa lingua, nel II secolo, si affiancano il
siriaco e il latino, cui si aggiungono, da Oriente, il
copto, l’armeno, l’arabo, l’etiopico. Il moltiplicarsi delle
lingue mostra la forza di penetrazione del
cristianesimo».
Questo cosa comporta?
«In un primo momento, un momento che durerà qualche secolo, la sua capacità di adattarsi a culture anche molto diverse, provenienti dall’Oriente, dal nord Africa, dal mondo slavo. Poi, a partire dall’età moderna, la propensione “mimetica” si riduce. Muta il paradigma: evangelizzare, si pensi alle missioni dei gesuiti, significa imporre una fede piuttosto che porgerla e adattarla. La conseguenza è che il cristianesimo si radicherà sempre meno nelle culture fuori dall’Europa».
C’è anche la questione tutt’altro che risolta del
rapporto tra ebraismo e cristianesimo.
«Il dato più ovvio è che Gesù non era cristiano, era ebreo
come i suoi primi seguaci: leggevano il Tanakh ossia la
Bibbia ebraica. La predicazione di Gesù si fonda su di
esso, perciò non è facile stabilire se Gesù rappresenta la
rottura o la continuità con il mondo giudaico».
Tuttavia un cambiamento radicale è avvenuto.
«Non così netto. Se ripercorriamo i Vangeli, scritti qualche decennio dopo, vediamo la predicazione di Gesù sarebbe incomprensibile senza il Tanakh».
Quindi continuità?
«Sì, ma al tempo stesso rottura, dal momento che Gesù è il Messia come ci rammentano i Vangeli. Non la figura che deve venire, ma che è già venuta».
Si parlava della crisi della chiesa. Tornare ai Vangeli, alla loro etica cristiana, sarà un modo per uscirne?
«L’esperienza dei Vangeli è imprescindibile, ma resta
l’immane lavoro, ordinario e straordinario, che questa
chiesa nella tempesta ha davanti a sé».
Se ne rese conto Bergoglio, sul quale mi pare lei ha
molte riserve.
«Non molte, alcune. Il suo è stato un pontificato di luci e
ombre. La sua sincera volontà di cambiamento ha
prodotto scarsi risultati. Indiscutibilmente un grande
papa mediatico».
Lo sottolinea quasi con riserva.
«Un’enorme visibilità messa al servizio di cosa?»
Lo dica.
«Del consolidamento del potere».
È stato un accentratore?
«Senza alcun dubbio. Un sorridente autocrate».
E la coabitazione con il papa emerito Ratzinger?
«Buona, quanto meno hanno rispettato la forma. Non
si può dire lo stesso delle rispettive tifoserie».
Accennava al bisogno imprescindibile dei Vangeli.
«Quanto meno bisognerebbe tornare a leggerli».
Ha qualche preferenza?
«Il Vangelo di Giovanni, di gran lunga il più profondo
teologicamente».
Ha un incipit hollywoodiano.
«Un’affermazione vertiginosa: “In principio era il Verbo”,
in principio era il logos, ossia la parola divina. La parola
della creazione. Ci sono diverse corrispondenze tra
questo Vangelo e la Bibbia ebraica».
Tradurrebbe quel prologo con “In principio era la preghiera”?
«Forse uno dei gesti autentici che malgrado tutto abbiamo conservato per i nostri momenti difficili. Davanti alle guerre, ai conflitti religiosi, alle perentorie e aggressive affermazioni, sono convinto che la gente nel profondo non ha mai smesso di pregare. Mi viene in mente un bellissimo libro, i Racconti di un pellegrino russo. E questo pellegrino, che affascinò Cristina Campo, entra in chiesa e ascolta le parole della Lettera ai Tessalonicesi. Paolo dice: “pregate incessantemente”».
Si può farlo?
«È la domanda che il pellegrino si fa: come posso pregare incessantemente se la vita mi mette davanti a mille incombenze e dubbi. La risposta è nella “preghiera del cuore”, il solo luogo che dobbiamo proteggere».
Non le ho chiesto del nuovo papa. Si aspettava
l’ennesimo papa non italiano?
«È il quarto papa che viene da fuori. Ormai i conclavi sono gestiti oltre che dalle correnti dai numeri. E tra i cardinali elettori gli italiani sono meno del 15 per cento. Detto questo mi ha sorpreso la elezione di Robert Prevost. Si può solo scommettere per ora sul “governo” di Leone XIV. Avrà un compito difficile. Da quello che ha scritto, dai primi atti del suo pontificato si intuisce che proverà a unire il più possibile e a sanare le divisioni all’interno della chiesa. Dovrà affrontare temi sensibili – dalla liturgia alla bioetica – e non sarà semplice. Ma mostra di possedere sia la capacità di ascoltare che di decidere».
Continuità o rottura rispetto a Francesco?
«Ci sono indizi che lo differenziano. Avrà una navigazione salda, ma la nave deve essere robusta per attraversare la tempesta».