Robinson, 5 ottobre 2025
Il nuovo manifesto surrealista
Sono tempi fin troppo “interessanti” questi. La presunta maledizione cinese che è stata anche il titolo della Biennale di Venezia 2019 – May You Live in Interesting Times –, quella pre-pandemica, si è avverata. Con il mondo in fiamme e la geopolitica impossibile da decifrare. La democrazia fragile e il cambiamento climatico. Mentre a oriente i droni sorvolano minacciosi i confini. Se la realtà risulta un dato di fatto difficilmente accettabile, anche l’arte che consumiamo lo registra, solitamente indicando come una bussola la nostra posizione, spesso anticipandola. Suggerendo strategie di sopravvivenza. Così, alle file per vedere i dipinti di Caravaggio, esposti a Roma fino a questa estate, si sostituiscono ormai quelle per il Beato Angelico a Firenze. Le porte regali si sono riaperte. Fondi oro, estasi mistiche e ascensioni hanno preso il posto del gran teatro del vero, della carne e del sangue barocchi. Mentre il surrealismo, emerso poco più di un secolo fa dalle trincee della Prima guerra mondiale, è più vivo che mai. Si moltiplicano le esposizioni a tema. Se ne scoprono finalmente nuovi sacerdoti – anzi sacerdotesse – del culto. Non ancelle, ma maghe: Leonora Carrington, Leonor Fini, Remedios Varo. Le biennali le hanno riconsegnate alla storia: a partire dal Latte dei sogni di Cecilia Alemani, nel 2022. Tutte, ricercate da gallerie e case d’asta, hanno avuto o stanno ricevendo in Italia e nel mondo la loro tardiva retrospettiva.
L’invisibile non è mai stato così presente nei musei: dai cerchi ispirati dagli spiriti guida di Hilma af Klint, la svedese che anticipò il non figurativo esposta al MoMA di New York dopo un tour planetario, ai Fantasmi del Kunstmuseum di Basilea. È il trionfo dell’“arte magica”, per dirla con André Breton, l’ispiratore di una mostra sintesi di questo momento: Fata Morgana, che cita un altro componimento del poeta francese dedicato all’incantatrice della saga di Re Artù. I curatori Massimiliano Gioni, Daniel Birnbaum e Marta Papini con la Fondazione Nicola Trussardi trasformano Palazzo Morando, a Milano (dal 9 ottobre al 30 novembre, catalogo Electa), in un circolo teosofico, radunando 200 tra opere, oggetti e documenti che aprono varchi, al di là del tempo e dello spazio.
Ci sono la stessa af Klint, i cui dipinti erano alla Biennale firmata Gioni nel 2013, e altre pioniere dell’astrazione: Wilhelmine Assmann, Annie Besant e Georgiana Houghton, che, all’insaputa dei più, arrivarono prima di Kandinskij e Mondrian. Medium come Eusapia Palladino; capisaldi del XX secolo, guidati da Marcel Duchamp, che diceva: «L’artista agisce come un essere medianico che, dal labirinto al di là del tempo e dello spazio, cerca la sua via di uscita verso una radura». In quella radura troviamo Man Ray, Pierre Klossowski, ma anche le tavole di meditazione di Olga Fröbe-Kapteyn, la pittura automatica di Ethel Le Rossignol e gli studi onirici di Emma Jung. Contemporanee come Judy Chicago o Kiki Smith e, risalendo l’albero genealogico di chi scavalcava la soglia della coscienza, incrociamo la mistica del XII secolo Ildegarda di Bingen.
Il progetto, nato da una serie di confronti promossi da Beatrice Trussardi, è stato formalizzato durante un incontro nei mesi scorsi a Sils Maria, nella Val Fex, in Engadina, non lontano dalla casa di Friedrich Nietzsche e dove era solito dipingere Giovanni Segantini. E, se i luoghi non sono casuali, anche a Milano la scelta di Palazzo Morando ha un significato: era la residenza della contessa Lydia Caprara Morando Attendolo Bolognini, che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, aveva messo insieme una vasta biblioteca dedicata agli studi sull’occulto e l’alchimia. Ma Fata Morgana non cerca verità nel soprannaturale: registra quel passato e quei movimenti, costruendo un ponte che approda sulla sponda della contemporaneità. «È sintomatico che Breton scriva Fata Morgana a Marsiglia, nel 1940, quando sta cercando di fuggire dall’Europa assediata dal fascismo – spiega Gioni – in un viaggio che lo porterà ad Haiti dove scoprirà il lavoro di Hector Hyppolite, pittore e prete vudu (incluso in mostra). A Marsiglia, molti dei surrealisti in procinto di scappare in America, tra cui Max Ernst, Victor Brauner e altri, trascorrevano le giornate, in attesa di visti e passaggi in nave – anche loro erano migranti, sfollati e rifugiati – disegnando un nuovo mazzo di tarocchi, che chiamarono “il gioco di Marsiglia”: erano carte senza re e sovrani, senza dittatori. Anche quando si imbevevano di occultismo e simbolismo medievale, cercavano sempre un modo per trasformare la realtà attorno a loro, nelle sue ramificazioni politiche e sociali».
Il surrealismo è stato un motore di accelerazione di processi di liberazione, non soltanto estetici. «Dal surrealismo e da Breton possiamo apprendere una nozione espansa dell’arte – precisa Birnbaum – Breton aveva un’idea dell’arte quanto mai flessibile, elastica, e generosa. Con l’inclusione di artisti eccentrici, di medium e visionari, e con un’apertura che conferiva alle donne poteri quasi magici e accoglieva l’opera di artisti di colore e provenienti da quelle che erano ancora colonie, celebrava un’idea di arte che andava al di là delle definizioni accademiche dell’epoca e oltre le gerarchie istituzionali del tempo. La sua idea è quanto mai utile e attuale». La dimensione del soprannaturale forniva alle artiste outsider, molte delle quali sono esposte in mostra, la possibilità di esprimersi in una società ancora tutta maschile. Il percorso di Hilma af Klint, figura centrale di Fata Morgana, può essere letto anche in questa chiave. «Non stupisce che siano state le donne, relegate ai margini della società patriarcale e per questo più propense a scardinarla, a esplorare e estendere i confini di quella conoscenza, fino ad arrivare a mettere in discussione i rigidi principi su cui quella società era basata – chiarisce Marta Papini – Per rimanere su af Klint, la serie Primordial Chaos, presente in mostra, illustra la nascita del mondo e dei dualismi primari – maschile e femminile, cielo e terra – che l’artista considerava i principi fondamentali dell’esistenza, principi che dovevano risolversi in una nuova sintesi, tanto da sostenere di potersi incarnare in un essere di genere maschile, prendendo il nome di Asket». «Con i suoi spiriti guida Hilma cercava di darsi una licenza, un permesso per trasformare la realtà e la storia dell’arte: la fuga nel soprannaturale trovava quindi un effetto molto concreto nella realtà», ribatte Gioni.
Concorda Birnbaum, che della pittrice svedese è il massimo esperto: «Come ha scritto lo storico dell’arte Branden Joseph, Hilma af Klint ha dovuto inventarsi gli spiriti per poter fare ciò che voleva, perché la sua proposta era così radicale, sia come artista sia come donna, da richiedere di reinventare completamente le regole, attribuendo agli spiriti e a un altro mondo la libertà che non poteva trovare in terra». Hilma e le sue sorelle realizzavano quello che l’arte continua a fare tutt’ora: spostare in avanti i confini della realtà. Senza fuggirla, soltanto rendendola più accettabile.