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 2025  ottobre 05 Domenica calendario

Clima, droni, finanza. L’IA entra nel mondo

Anni fa, per dialogare con una macchina, dovevamo imparare un codice di programmazione. Oggi basta conversare con un chatbot, proprio come faremmo con un altro essere umano. Del resto anche il linguaggio naturale, quello umano, è composto da simboli. Con regole imperfette, a volte ambigue, ma abbastanza codificate per essere comprese dall’intelligenza artificiale, dotata di capacità generative (ovvero addestrata per produrre essa stessa contenuti). Al di fuori degli schermi, la storia cambia e si fa più complessa. Il mondo è ancora analogico, difficile da tradurre in dati digitali – in simboli – perché un algoritmo possa elaborarlo e comprenderlo. Il passaggio successivo, permettere all’IA di muoversi nella realtà, è un’evoluzione su cui la comunità scientifica si sta concentrando per rendere la robotica avanzata – automi che grazie a un cervello artificiale sono in grado di interfacciarsi con il mondo in autonomia – una realtà.
Giorgio Metta, direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, per un decennio ha coordinato il gruppo di lavoro che ha progettato e costruito iCub, una delle piattaforme di riferimento a livello globale per la ricerca sull’IA e sui sistemi di robotica umanoide. Il centro, che guida dal 2020, è tra i più avanzati nello studio su come portare gli automi nella nostra realtà. «Trovare un modo efficiente per inserire la conoscenza della fisica dentro una macchina è un passaggio fondamentale per creare algoritmi che abbiano dentro la conoscenza del mondo e sappiano così interagirvi», spiega a «la Lettura». La differenza sta anche in come questo mondo lo abbiamo costruito: è pensato per noi, gli esseri umani. Che facciamo tentativi e usiamo l’intuito per poi capire – in un secondo momento e sfruttando i dati a disposizione – se quella strada, quella soluzione, possa risolvere un problema. Nel caso dell’IA il processo è un altro. Si parte dai dati. E se di quei dati, digitalizzati, ne abbiamo a disposizione tanti, qualitativamente alti e ben ordinati, allora l’IA diventa uno strumento davvero in grado di rivoluzionare i processi, le abitudini, il lavoro: «Ottenere un modello ben funzionante significa avere a disposizione una bussola che mi consente di arrivare alla soluzione in maniera ottima: in gergo tecnico significa raggiungere la migliore soluzione possibile. E questa bussola può essere applicata a qualunque campo dello scibile umano».
Geopolitica, industria, agricoltura
Quando, lo scorso luglio, Donald Trump ha presentato il suo AI Action Plan, il piano per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale negli Stati Uniti, ha dichiarato che farà «qualunque cosa sia necessaria per guidare il mondo in questo campo». Circa un anno fa, l’ex premier italiano Mario Draghi aveva indicato l’innovazione come il principale motore per fare ripartire l’industria e l’economia europea nel suo rapporto sulla competitività: «Con il mondo sull’orlo della rivoluzione dell’IA, l’Europa non può permettersi di rimanere bloccata nelle “tecnologie e industrie intermedie” del secolo scorso». Spostandoci più a est, il presidente cinese Xi Jinping qualche mese fa ha promesso di concentrare i suoi sforzi per raggiungere «autosufficienza e rafforzamento autonomo» nello sviluppo dell’intelligenza artificiale e competere con gli Usa nel settore più strategico. Qualche esempio di come nella retorica di ogni leader non possano più mancare quelle due parole – intelligenza artificiale – che promettono di rappresentare un cambiamento paradigmatico a livello sociale, industriale, economico.
Ed è così in effetti in molti settori. «C’è un’applicabilità forte dove il processo è molto strutturato», puntualizza Metta. Rimanendo sull’interazione con il mondo fisico, possiamo trovare esempi di grande efficienza già oggi nella logistica. Ma anche nel manifatturiero, uno degli ambiti dove c’è maggiore interesse «perché è possibile automatizzare buona parte delle operazioni e si risolve anche il grosso problema di mancanza di manodopera. Gestire gli impianti sta diventando una criticità». Di contro, se l’automazione risulta adatta per le grandi produzioni, è difficilmente attuabile in realtà minori. Come le piccole e medie imprese italiane: «Servono importanti investimenti e si ha difficoltà a ottenere flessibilità. La scommessa ora è proprio questa: riuscire ad avere macchine che sono in grado di cambiare i flussi di produzione molto velocemente sfruttando l’intelligenza artificiale».
Lo stesso si può dire del settore agricolo: l’automazione funziona bene in ampi campi in pianura dove si coltiva e si raccoglie una sola coltura, ma non nei filari delle vigne costruiti su terrazzamenti come quelli che si trovano in Liguria e che sono ben noti a Giorgio Metta. «C’è questo limite generale: funziona bene in ambienti facili e lineari, ma su ambienti complicati c’è ancora molto lavoro da fare. Qui l’evoluzione dell’IA giocherà un ruolo importante».
Veicoli e case, finanza e guerra
Ancora una volta, servono simboli e modelli perché gli algoritmi possano funzionare a dovere. Un magazzino perfettamente adibito a «campo da gioco» per gli automi che si muovono in autonomia non è paragonabile a una strada trafficata in cui si cerca di insegnare alle auto a guida autonoma come spostarsi in condizioni imprevedibili. Per questo il sogno delle vetture che si guidano da sole è ancora lontano dalla realizzazione: «Certo è impensabile cambiare completamente l’ambiente per adattarlo alla macchina – ragiona Metta – perché il costo infrastrutturale sarebbe proibitivo. Si può fare l’esempio della domotica: quando si è iniziato a parlare di casa intelligente sembrava che tutti ci saremmo dotati di sensori. Poi si facevano i conti e molto spesso erano troppo alti. Ha funzionato per abitazioni nuove, costruite prevedendo già queste componenti. Allo stesso modo, per tornare alle città, in un contesto come quello americano forse c’è più margine per creare sistemi automatizzati: sono più semplici e lineari. Nelle nostre, di origine medievale e con strade contorte, è più complesso».
Codificare il mondo analogico è comunque al centro degli sforzi dei centri di ricerca, ma anche dei colossi del settore. La stessa prospettiva è quella che ha dato Jensen Huang, ceo di Nvidia, il colosso che fornisce la maggior parte dei chip per l’addestramento dell’intelligenza artificiale. A gennaio ha introdotto il concetto di Physical AI: «Così come Chat-Gpt comprende il linguaggio, serve un modello in grado di comprendere il mondo. L’inerzia, la gravità, la presenza di oggetti: una comprensione geometrica e spaziale. Se si vuole che l’intelligenza artificiale sia in grado di operare, interagire, in modo sensato, è necessario avere un’IA che il mondo lo capisca».
L’intelligenza artificiale generativa che si è diffusa negli ultimi anni si è aggiunta a tecnologie su cui si sta lavorando da decenni. Come il Deep Learning e le reti neurali, la cui applicazione permette di creare sistemi previsionali sempre più precisi. «I modelli climatici sono un bell’esempio di come nuovi algoritmi, basati anche sull’apprendimento automatico, stiano migliorando la conoscenza». Ma anche nella finanza questi sistemi sono molto usati, per la previsione delle tendenze di mercato o la valutazione dei rischi di investimento: «Ci potrebbero essere cose interessanti da fare sui modelli macroeconomici – aggiunge Metta – perché è lì che puoi effettivamente intervenire per evitare fenomeni oscillatori, come l’inflazione che sale. L’intelligenza artificiale potrebbe dare un aiuto a tenere il mercato in posizione relativamente stabile». Se guardiamo ai settori dove questa tecnologia sta davvero facendo la differenza, non si può lasciare indietro l’ambito militare. In un periodo storico con così tante tensioni geopolitiche come quello attuale, i forti investimenti sulla’IA sono direzionati a dare un vantaggio agli eserciti: «Funziona purtroppo molto bene. Posso ottimizzare il dispiegamento delle forze piuttosto che controllare macchine automatiche, come i droni, e dire loro cosa fare o che bersaglio colpire. Questo la rende una tecnologia molto delicata ed è anche uno dei motivi per cui i grossi blocchi – Cina e Usa – ambiscono a sviluppare algoritmi sempre più potenti e più efficaci, supportati da centri di calcolo sempre più grandi».
Banalmente, chi sta più sfruttando le potenzialità dell’IA è chi, con le macchine, ci dialoga costantemente e lavora per renderle più performanti: «Aiuta il programmatore umano a non dover continuamente scrivere cose piuttosto ripetitive. Sono linguaggi semplici, privi di ambiguità, precisi». Secondo i dati forniti da GitHub, una delle principali piattaforme che ospita progetti software, già nel 2024 si era registrato un aumento del 59% nel numero di progetti dove si faceva uso di IA generativa per programmare.
Ma è forse la ricerca scientifica la serratura dove la chiave IA si incastra perfettamente ed è potenzialmente in grado di aprire ogni porta. «Non è un caso che nel 2024 sia stato assegnato il Nobel per la chimica a Demis Hassabis e ai suoi colleghi», ricorda Metta citando il premio consegnato al team di DeepMind, la divisione di Google specializzata in intelligenza artificiale, per il progetto AlphaFold con cui sono stati in grado di ricostruire la struttura delle proteine. Dagli stessi laboratori era uscito AlphaGo, il primo sistema di IA in grado di battere l’uomo a go, gli scacchi cinesi: «Sul Deep Learning si lavora da 15 anni. Oggi ne vediamo l’evoluzione che, con i nuovi modelli di intelligenza artificiale generativa, hanno sbloccato nuove potenzialità. È come una ricetta con tanti ingredienti: chi riesce a mischiare i modelli e trova una miscela ottimale ottiene un grande risultato dall’algoritmo». Nella ricerca scientifica questo effetto si vede bene: «Ci sono dati di altissima qualità e molto strutturati. Questo permette di arrivare a formulare nuove ipotesi facendosi aiutare dal’IA. Ipotesi che poi devono essere provate, perché nella scienza rimane comunque fondamentale l’esperimento. Non cambia nulla rispetto al metodo. Ma l’impatto può essere enorme sui più diversi settori: biologia, medicina, scoperta di nuovi farmaci, modulazione di nuovi materiali, simulazione di molecole».
Creatività, formazione
C’è un ambito dove invece l’intelligenza artificiale non performa al meglio e, anzi, rischia di fare danni. Ed è un ambito dove i tentativi, il caso, le intuizioni – tutto ciò che è tipico dell’essere umano – sono alla base dei prodotti che veicola. Dai libri ai film, dalla musica ai semplici testi, quando si tratta di creatività i risultati che ci presenta l’IA «mancano di verve e sono un po’ piatti. I contenuti generati in automatico hanno un po’ tutti lo stesso aspetto. Mancano di originalità».
A questo punto Giorgio Metta cita uno studio del Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Boston, «che mostra bene le differenze di qualità di un testo scritto da studenti nel caso in cui usino o meno l’intelligenza artificiale». La ricerca prevedeva l’analisi di come le aree del cervello connesse con l’ideazione creativa, l’integrazione dei significati e l’automonitoraggio venissero attivate a seconda del differente uso di ChatGpt. I 54 studenti volontari sono stati divisi in tre gruppi: il primo poteva scrivere solo sfruttando le proprie risorse mentali, il secondo poteva usare il motore di ricerca Google, il terzo aveva a disposizione il chatbot di OpenAI. Le differenze del funzionamento dei loro cervelli sono risultate enormi e la connettività celebrale del gruppo con ChatGpt è stata del 55 per cento più bassa rispetto al gruppo analogico. Riguardo ai testi prodotti, quelli di quest’ultimo team erano effettivamente piuttosto omogenei e simili tra loro.
Un altro risultato piuttosto sorprendente è che l’83 per cento di chi ha usato l’IA faticava a ricordare le frasi che aveva scritto. «Qui c’è un messaggio importante rispetto all’istruzione e alla formazione – continua Metta —, non solo chi usa l’IA produce testi che superficialmente sembrano migliori ma che dall’analisi linguistica si capisce che non sono qualitativamente alti. Ma soprattutto questi ragazzi non ricordano. Lavorare a mano, leggere, scrivere e produrre un testo in maniera originale, per l’essere umano è utile per memorizzare. Se lo fa l’intelligenza artificiale, i dettagli gli sfuggono. Questo è da tenere presente quando si tratta di scuola: c’è la possibilità che diventiamo un po’ tutti meno bravi, proprio perché un pezzo del nostro apprendimento lo stiamo scaricando su una macchina».
La formazione è in realtà fondamentale anche per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Metta racconta della strategia cinese, che ha puntato proprio sulle competenze: «Hanno investito tantissimo nelle università, per migliorarne la qualità. L’hanno fatto anche supportando tanti ragazzi che andavano a studiare all’estero e che poi sono tornati convinti da offerte vantaggiose». Gli Stati Uniti, in questo momento, rimangono comunque il traino del settore e in generale nell’innovazione: «La qualità della formazione e dell’innovazione è ancora altissima. Il fattore Trump per ora non è riuscito a fare danni, ma certamente potrebbe lasciarne con la diminuzione dei fondi per la ricerca scientifica e la perdita di attrattiva per i talenti».
L’Europa rimane nel mezzo e stenta: «Sull’IA la situazione è complessa, la nostra propensione al rischio è meno marcata, c’è meno dinamismo e questo si ripercuote sulle performance nell’innovazione tecnologica». Il rischio è rimanere indietro. E, guardando all’ambizione di portare l’intelligenza artificiale nel mondo fisico, le sfide per noi europei sembrano essere maggiori. A fronte di Paesi dove le città sono più lineari e sensori e telecamere possono già procurare dati digitali, il nostro mondo, con diverse storie, culture e irregolarità, si presenta ancora fortemente analogico.