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 2025  ottobre 07 Martedì calendario

«Mia cara Gegia, non sarò mai felice»: l’ultima lettera d’amore di Silvio Pellico prima dell’arresto

13 ottobre 1820, alla signora Teresa Marchionni. «Mia cara Gegia, giudica dell’infinito dispiacere che m’accora: dopo essermi tanto lusingato di passare a Brescia, nel nostro ritorno da Venezia, tutt’in un tratto per affari premurosi il conte Porro ha dovuto da Mantova recarsi direttamente a Milano; ed essendogli io necessario, è convenuto ch’io lo seguissi. Aggiungi a ciò il dolore che ho provato nell’intendere (appena arrivato a Milano) che il nostro povero Maroncelli era stato arrestato. Il mio arrivo fu domenica, e Maroncelli era stato arrestato venerdì. Sapendo che questo giovine è incapace di male azioni, ho subito cercato di sapere se mai fosse stato in qualche rissa, e se questo arresto fosse di poca conseguenza; ma nulla ho potuto rilevare, se non che egli aveva scritto a Bologna una lettera la quale fu Ietta dalla polizia, e che per ciò era posto in prigione.]..] Compiangimi, compiangimi, mia buona arnica! io non sarò mai felice! Ogni speranza di bell’avvenire svanisce, e quanto più mi vedo nell’impossibile di superare i crudeli decreti che mi separano da te, tanto più sento ch’io t’ amo, e che senza di te la mia vita non ha che amarezza».
Chi scrive non sa ancora (ma teme) che quello in cui scrive a Gegia, nomignolo tenero dell’amata Teresa, è un giorno fatidico e che tra poche ore sarà tratto in arresto, con l’accusa di appartenere alla Carboneria, coinvolto proprio dall’amico Maroncelli. Silvio Pellico, scrittore e patriota, saluzzese, in quegli anni è già molto noto oltre che per la sua tragedia Francesca da Rimini, rappresentata in molti teatri italiani, per la sua attività politica e per il periodico Il Conciliatore, chiuso dagli austriaci pochi mesi prima perché considerato sovversivo. È un sospetto, e lo sa.

Il suo è in effetti tra i nomi citati nella lettera che il carbonaro Piero Maroncelli porta con sé quando la polizia lo ferma. La lettera parla della necessità di costituire «una regolare stanza di consiglio scientifico che si voleva fondare con uomini prudenti e sapienti» facendo poi anche i nomi del Romagnosi, del Gioia, del Porro, del Gonfalonieri, dei Generali Lecchi e Galimberti.
Quando Silvio scrive a Gegia, la bella attrice conosciuta l’anno prima, mentre fa il precettore in casa del conte Porro, è ancora un uomo libero, ma per poche ore. Scriverà, anni dopo, nel 1831, ad incipit del suo più famoso epistolario, Le mie prigioni: «Venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Alle nove della sera di quel povero venerdì, l’attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa ch’io avessi in tasca, e m’augurò rispettosamente la buona notte».
L’arresto interrompe bruscamente la relazione con Teresa, alla quale anche la famiglia di Pellico è avversa perché non lo vuole vedere legato ad un’attrice di teatro. Non interrompe invece l’amore, più silenzioso ma mai dimenticato per Cristina Archinto Trivulzio, la nobildonna milanese che lui ha conosciuto nel 1819 e che tuttavia l’anno stesso è andata sposa al conte milanese Giuseppe Archinto.
Nella lettera a Ferdinando Rossi di Vandorno del 20 agosto 1819 –della quale racconta la storica Cristina Contilli– Pellico confida all’amico di essersi innamorato d’una marchesina Trivulzio di vent’anni «d’un cuore tutto schiettezza e soavi sentimenti.» Aggiunge: «Non voglio più amare – se posso –. Disgraziatamente v’è quella compagna delle passeggiate mie solitarie, quella fanciulla di 20 anni, quella che mi porgeva il latte, dopo averlo libato colle sue labbra – la sua immagine è qui, profondamente scolpita; ma no, non sarà amore. Non abbiamo proferito altro nome che quello di amicizia. Il pericolo era passato, tutta la brigata s’era sciolta; io era venuto via da Balbianino; stavamo qui alla Cascina, Porro ed io – quand’ecco una sera, eravamo mezzi addormentati sopra un sofà, compariscono dei cappellini e tre donne: la madre e le due figlie» (la contessa Beatrice Serbelloni Trivulzio con le due figlie: Cristina e Rosina), «io balzai come un innamorato di 15 anni».
Silvio e Cristina si rivedranno nel 1836, ma dovranno passare altri 11 anni prima che possano parlarsi ancora. Scriverà lui, da Torino, uscito di prigione: «I migliori amici ch’ io abbia qui, cioè il Marchese e la Marchesa Barolo, hanno voluto ch’ io presentassi loro il mio Giulio, e lo conducessi a pranzo, e sono stati contentissimi di lui. Qui nello stesso albergo ov’è Giulio sono gli Archinto, e ieri ho riveduto la contessa Cristina ch’ è sempre buona, schietta e naturale come quando era ragazza. Ed essa non è di quei Milanesi che hanno paura di dispiacere alli Austrìi se mi vedono. Debbo pur dire che di quei paurosi ve ne sono pochi. Infinite sono le dimostrazioni di stima che apertamente mi si fanno dagli antichi conoscenti».
Inizialmente condannato alla pena di morte, poi commutata in carcere duro, Pellico uscirà dallo Spielberg sofferente ma non domo, e capace ancora di quegli slanci romantici che la storiografia risorgimentale aveva subordinato al suo patriottismo e che l’epistolario edito nel 1856 da Guglielmo Stefani aveva invece esaltato. Come farà anche lo scrittore piemontese Giorgio Briano raccontando che «una sera, mentre tornava a casa a piedi assieme a lui, Silvio Pellico si fosse fermato di fronte ad una porta e gli avesse confidato che lì aveva abitato il suo primo amore, la donna che – secondo Briano– avrebbe ispirato il personaggio di Francesca nella Francesca da Rimini». Forse proprio l’adolescente torinese Carlottina, morta a 15 anni, quel primo amore innocente che nell’edizione parigina de Le mie prigioni Piero Maroncelli evocava nella sua prefazione.