corriere.it, 7 ottobre 2025
Intervista a Maurizio Zanella
«Ma sì, è tempo di dirlo. A quel ragazzo, soprattutto a lui, è dovuto il successo della Franciacorta. Ci buttò dentro la rabbiosa volontà del meglio, dell’esasperata selezione, del qualitativo estremo». Luigi Veronelli, il giornalista enogastronomico che dagli anni Settanta tenne a battesimo il Rinascimento del vino italiano, scrisse queste parole il 12 marzo 2000 sul Corriere della Sera. «Quel ragazzo» era Maurizio Zanella, classe 1956, fondatore di Ca’ del Bosco, tra le prime cantine della Franciacorta a produrre spumanti metodo classico di qualità. Oggi le sue bottiglie superano quota due milioni e il marchio è tra i più blasonati d’Italia, ma nel 1978, quando uscirono le prime bollicine, Zanella era «il milanese a cui non dare credito».
Ci racconti gli esordi.
«Ca’ del Bosco era la cascina con alberi, vigne e animali acquistata da mia madre Annamaria Clementi nel 1964. Ci arrivai a 16 anni, in castigo, perché a Milano ero stato bocciato due volte al liceo e combinavo guai. La zona era abbandonata, la chiamavano Val del Luf, valle del lupo».
Come si avvicinò al vino?
«Per puro caso: l‘ispettorato dell’Agricoltura della Lombardia offriva un viaggio studio tra Champagne e Borgogna per i vignaioli della zona, con tappa finale a Parigi. A me interessava solo andare al Moulin Rouge con il conte Maggi, l’inventore della Mille Miglia di cui ero diventato amico, ma dissi a mia madre che era importantissimo partecipare per imparare a produrre il vino buono. La prima cantina che visitammo fu Romanée Conti».
Rimase folgorato?
«No, non capivo molto. Fino a che un giorno, mentre il fattore Toni Gandossi stava raccogliendo l’uva insieme a mio padre, dissi: “Non si può fare il vino così, io so tutto: dobbiamo avere una cantina”. Papà mi prese sul serio».
Quindi, minorenne, la costruì per davvero.
«Mio padre sottoscrisse un prestito garantito senza dirlo né a me né a mia madre, ci fece credere di essere economicamente scoperti. La mamma piangeva perché doveva firmare le cambiali. Durante i lavori papà non mise becco: lo stimo, io ai miei figli sto ben più addosso».
Com’era il vostro rapporto?
«Complesso: lui, immerso nel lavoro, non c’era mai, lo vedevo poco ed erano solo conflitti. A posteriori ci soffro ancora, perché si è ripetuta la stessa cosa con i miei figli. Non mi sento un bravo padre: Ca’ del Bosco ha prevalso su tutto. Fino a cinque anni fa la mia vita era monotematica. Non mi pesava, anzi, ma non mi accorgevo di non dosare bene il tempo. Oggi ho rallentato i ritmi e sto recuperando».
L’azienda è piena di opere d’arte. Perché?
«Grazie al lavoro dell’enologo André Dubois, venuto da Reims, le vendite sono andate subito bene, ma in quegli anni il vino era percepito come un alimento: l’arte era una chiave per provare a cambiare paradigma. Cominciai chiedendo ad Arnaldo Pomodoro di farmi un cancello: mi diede del pazzo, poi accettò».
Qual è stata la sua fortuna?
«Non avere una famiglia di vignaioli: senza un passato, ho rotto gli schemi più velocemente anche grazie a Luigi Veronelli, per me un padre putativo e ideologico».
Come vi siete conosciuti con Veronelli?
«A una fiera a Genova. Gli piacque il mio vino. Da allora, poiché non guidava, lo scarrozzavo io dappertutto. Insieme visitammo cantine, trattorie e ristoranti in tutto il mondo quando le stelle Michelin erano la coda di camion parcheggiati fuori. Mio padre era preoccupato: parlavo solo con cuochi e camerieri, temeva per il mio livello culturale».
Lei faceva parte del «Club dell’ascensore».
«Eravamo 12 pazzi che ogni anno dovevano ingrassare o dimagrire di almeno dieci chili, pena l’espulsione. C’erano Henri Chénot, Luciano Pavarotti, Giovanni Goria... Ogni mese un membro del club doveva organizzare una cena dell’ingrasso, pantagruelica, a casa sua».
Non molto salutare...
«E non lo era nemmeno il torneo di calcio che ho organizzato qui in cantina per 15 anni. Politici, giornalisti, industriali, viticoltori. A bordo campo c’era il Franciacorta al posto degli integratori. Veronelli si ruppe la tibia e il perone, aveva più di 70 anni. Gianni Rivera giocava tra i Politici e vinse quasi tutte le edizioni».
La sua posizione politica?
«Sono intransigente sulla tutela del territorio, infatti non ho molti amici».
Un successo e un errore.
«Aver contribuito al fatto che, oggi, “Franciacorta” identifichi un prodotto senza bisogno di altri aggettivi. L’errore è aver lanciato il termine “bollicine”: ci ha fatto gioco, ma ora è riduttivo. Il Franciacorta è un vino, punto».
Dal 1994 in Ca’ del Bosco è entrata la famiglia Marzotto, oggi gruppo Herita.
«Un’idea di mio papà: quando me lo propose mi incavolai, ma aveva ragione. Serviva un socio che sapesse rendere possibili i miei sogni».
Come vede la Franciacorta oggi?
«Per essere una denominazione così giovane abbiamo fatto tanto, ma c’è altrettanto da fare. Vedo alcuni dei nuovi arrivati seduti e rilassati su un treno che va bene: questo mi preoccupa».
Domanda d’obbligo: i dazi al 15 per cento?
«Non ci sarà un grande impatto, perché i nostri volumi di export negli Usa sono limitati. Però c’è il rischio che si comprometta il lavoro di promozione costruito in oltre quarant’anni».
Come sta il vino italiano?
«Penso che la crisi dei consumi sia ciclica, ma noi produttori abbiamo sbagliato: dobbiamo produrre meno e meglio. E raccontare il vino con meno nozioni e più emozioni».
Non dice volentieri la parola Champagne.
«Cerco di non citarlo, anche se lo adoro: a Est di Parigi (ride) raramente parlano di noi!».