Corriere della Sera, 7 ottobre 2025
Papesse, sante, spade. Verissime leggende
È vera storia quella che si produce al confine tra fatti realmente accaduti e immaginazione? Lo è, eccome, dal momento che, depurata dagli elementi di evidente fantasia, ci racconta cose del passato che le asciutte cronache fattuali non sono riuscite a dirci. Le leggende sono tutt’altro che inutili ai fini della ricerca storica rigorosa e scientificamente inappuntabile, vuol dirci Tommaso di Carpegna Falconieri in La storia al contrario. Papesse e antipapi, nani e fantasmi, in uscita venerdì 10 ottobre per i tipi di Salerno editrice.
Punto di partenza non può che essere quella che è stata già oggetto, tra gli altri, dei preziosi studi di Alain Boureau – La papessa Giovanna. Storia di una leggenda medievale (Einaudi) – e di Cesare D’Onofrio: Mille anni di leggenda: una donna sul trono di Pietro (Romana società editrice), ossia la storia di quella donna inglese (ma nata a Magonza) che da adolescente si traveste in abiti maschili per seguire il suo amante ad Atene, poi trasferirsi a Roma e lì acquisire una reputazione a tal punto grande da essere eletta Papa. L’elezione sarebbe avvenuta nell’855, alla morte di Leone IV, e nessuno si sarebbe accorto di niente per due anni, cinque mesi e quattro giorni. Cioè, fino al giorno in cui, nel corso di una processione tra il Colosseo e la chiesa di San Clemente, avrebbe dato improvvisamente alla luce un bambino. Per poi morire di parto ed essere sepolta sul luogo. Da allora, ha notato non senza malizia Agostino Paravicini Bagliani in La papessa Giovanna. I testi della leggenda (1250-1500) (Sismel Edizioni del Galluzzo), il Papa, quando va in processione, evita di percorrere quel tratto di strada.
La papessa Giovanna, scrive Carpegna Falconieri, non è vissuta nel mondo reale. Tuttavia, ha avuto una rilevanza enorme come personaggio immaginario. Curioso è il fatto che nell’alto medioevo non vi è traccia della papessa Giovanna ma sono attestate donne che si travestono da uomo e che portano titoli sacerdotali. Esperienze di confine possono essere considerate anche quelle degli antipapi, cioè gli «altri Papi», vale a dire quelli che hanno perduto la guerra contro il Pontefice poi considerato legittimo (tra età tardo antica e medioevo se ne contano una quarantina).
Paravicini Bagliani ha fatto notare che in ben due testi si è parlato di una donna eletta Patriarca di Costantinopoli. Il primo è la cronaca dell’Anonimo Salernitano, generalmente datata al 974 o poco dopo, in cui si dà conto di un Patriarca di Costantinopoli che aveva tenuto in casa una nipote vestendola come un eunuco e, in punto di morte, si era raccomandato a Dio di farla eleggere al suo posto. Il secondo testo è una lettera (mai spedita) di papa Leone IX a Michele Cerulario Patriarca di Costantinopoli. Nella missiva il Pontefice sosteneva esser di dominio pubblico che nella Chiesa di Costantinopoli venivano spesso promossi alle cariche ecclesiastiche degli eunuchi in violazione del primo canone del Concilio di Nicea. E che in un caso era stata eletta Patriarca persino una donna.
La storia della «patriarchessa» costantinopolitana, scrive Carpegna Falconieri, riveste grande interesse perché reintroduce il tema del rovesciamento dei ruoli da maschile a femminile. Tema che riguarda un’infinità di donne «di cui si racconta che condussero una vita di santità vestendo abiti maschili e mantenendo celata la loro condizione femminile». È il caso di Tecla di Iconio (vissuta nel I secolo), Eugenia (III secolo), Pelagia (III secolo), Eufrosina di Alessandria ed Eufrosina di Costantinopoli (V secolo) Susanna, Papula, Atanasia, Matrona (V e VI secolo), Marina di Bitinia (VIII secolo), GiuseppeIldegonda di Schönau (morto o morta nel 1188) e altre.
Nei numerosi casi delle «sante travestite», ricorda Carpegna Falconieri, il loro comportamento non viene colpevolizzato, bensì esaltato. Forti di un passo del Commento di san Girolamo alla Lettera agli Efesini: «Fino a quando la donna serve a partorire e a fare figli, è diversa dall’uomo sia nel corpo che nell’anima; ma se intende servire più Cristo che il mondo, allora cesserà di essere donna e sarà chiamata uomo».
Si verificano casi limite. Come quello di Atanasia che, vestita da monaco, dopo dodici anni di dure pratiche ascetiche è secca e scura di pelle al punto che, quando incontra il suo marito di un tempo, Andronico (anche lui monaco), non viene riconosciuta. O quello di santa Marina, già in monastero in vesti maschili, che viene accusata – in quanto maschio – di aver violentato una ragazza; Marina non rivela la sua identità, anzi accetta di assumersi la colpa e, rimanendo nei pressi del cenobio, accudisce il bambino nato dallo stupro. Quando muore, i suoi confratelli, lavandone il corpo, scoprono la sua vera identità sessuale. E non rivelano nulla.
Eugenia entra in monastero con «abito e animo virili» e il nome di Eugenio. La nobile matrona Melanzia se ne invaghisce e, respinta, la accusa di aver tentato di abusare di lei. Stavolta, per scagionarsi, l’«abate Eugenio» si toglie la tunica e «dimostra» la falsità della denuncia. L’autore dice che le innumerevoli leggende delle «sante travestite» sono «piacevoli alla lettura in quanto piene di avventure» ma «il confine tra la realtà accaduta e ciò che viene narrato può essere labile e incerto». Ed è possibile che pochissime di loro siano realmente vissute.
Una particolare trattazione è dedicata da Carpegna Falconieri ai Nani, «sorta di divinità minori nel pantheon germanico, i quali furono un tempo i membri di una popolazione storicamente attestata e di formidabile importanza». Sono «esseri che compaiono in mitologie distanti tra loro molti secoli e moltissime miglia, conosciuti dalla Svizzera all’Islanda, cioè in tutta quella parte del mondo che, ancora oggi, è abitata da popoli parlanti idiomi germanici». John Ronald Reuel Tolkien ne Il signore degli anelli (Bompiani) li descrive come «una razza perlopiù robusta e resistente, segreta, laboriosa, fedele ai ricordi del male (e del bene) ricevuto, amante della roccia, delle gemme, delle cose che prendono forma nelle mani degli artigiani più di ciò che vive una vita propria». La loro altezza si calcola raggiungesse a malapena il metro e cinquanta. Dalla corporatura massiccia, potente, muscolosa hanno («sebbene le interpretazioni siano, a questo riguardo, discordi», precisa Carpegna Falconieri) un colorito terreo, scuro, quasi olivastro. Hanno la barba, portano elmo e corazza, il cappuccio rosso e sono armati di scudo, ascia, oppure di spada corta. Sono minatori o fabbri, in grado di forgiare spade, elmi, anelli di grande bellezza. Temperano per Orlando la spada Durlindana, Gungir per Odino, il gladio di Gano di Maganza, la spada maledetta di re Heidrek, il martello di Thor, la spada Gram che, nel mito di Sigfrido, il Nano Regin forgiò per Sigurdh: una spada «così affilata che, confitta nel letto del Reno, aveva tagliato in due, come se fosse acqua, un fiocco di lana trascinato dalla corrente».
Corroborata da un’accesa virilità, «la bassa statura non impedisce ai Nani di essere grandi amatori, capaci di rapire le donne degli uomini e farle innamorare» (non sempre: il Nano Alberico, che voleva concupire le figlie del Reno, fu da esse motteggiato). Bevitori formidabili, come il Nano Perkeo che in un anno bevve tutto il vino della gigantesca botte fatta costruire nel 1664 dal principe elettore Carlo Lodovico nel castello di Heidelberg che conteneva quasi duecentomila litri. Nano Perkeo che poi morì per aver inghiottito dell’acqua. Ma sono tutt’altro che degli ubriaconi, vengono anzi descritti come saggi, conoscitori della magia e del sacro alfabeto delle rune.
Hanno una peculiare organizzazione sociale. A differenza dalle popolazioni germaniche, di tradizione semi-nomadica, essi sono stanziali. Abitano massicce fortezze di pietra, vere e proprie città. La cui vita è regolata da leggi ben definite. Di ciascuna di queste fortezze è capo un sovrano, generalmente un anziano. L’ordinamento è rigorosamente gerarchico. Il capo supremo di tutte le città è il gran re dei Nani che abita molto lontano e, secondo alcune leggende «porta sulla fronte una luce luminosa come il sole».
Il fatto che i Nani non fossero considerati essere umani, ma esseri intelligenti simili agli uomini, non deve stupire, scrive Carpegna Falconieri. Tale approccio con la «nazione nanica» non dimostra de facto la sua non umanità, «ma il senso di straniamento e alterità che provarono i nordici e biondi creatori del mito quando entrarono in contatto con i primi uomini bassi, scuri e bene armati». Che appunto chiamarono Nani. Laddove la massima concentrazione di miti e leggende su di loro si ritrova sulle sponde del Reno. E qui ci avviciniamo al punto centrale di questa parte del libro.
Sulla scia degli studi di Umberto Roberto – in Il nemico indomabile. Roma contro i Germani (Laterza) – Carpegna Falconieri prende le mosse dal fatto che tra il primo secolo a.C. e il primo d.C. le potenti legioni romane si stanziarono, appunto lungo il Reno che fu il limes, cioè il confine, ultimo baluardo di civiltà. Lo fortificarono con bastioni e fossati, torri di guardia, campi trincerati. Introdussero la coltura della vite e resero prospere quelle terre. Poi man mano che l’impero si andava dissolvendo, le popolazioni mandate a presidiare quel limes restarono lì a difenderlo. E a difendersi.
Il punto è dunque che i Nani assomigliano ai nostri precursori di duemila anni fa. Mancarono purtroppo ai Germani, scrive Carpegna Falconieri, «un Cesare o un Tacito che descrivesse le fattezze dei Romani». Ma se ora noi potessimo interrogare un biondo Sassone dell’epoca intorno all’aspetto fisico di un legionario, «gli sentiremmo dire che il soldato in questione era bassissimo e dal colorito terreo». Lo possiamo dedurre dal fatto che le fonti romane «sono concordi nel manifestare sorpresa per l’altezza delle popolazioni nordiche». Anche le donne presentate come delle gigantesse. Ed ecco svelata, per differenza, la ragione per cui il popolo dei Nani è ignoto nelle terre in cui si parlano le lingue neolatine: «Queste furono sottoposte al dominio imperiale romano e i Romani non potevano certo mitizzare sé stessi descrivendosi bassi e scuri (ancorché intelligenti)».
Gli accostamenti possibili tra un Nano e un romano dei tempi antichi, scrive Carpegna Falconieri, sono «sorprendenti». Le somiglianze, poi, raggiungono il loro culmine nell’organizzazione sociale e militare. I «Romani», erano certamente stanziali, come i Nani. Cosa che non erano i Germani. Essi costruivano solide città e castra. All’interno dei quali vigeva la dura Lex romana sicché il governante era un capo militare, cui obbediva tutta la rigida gerarchia militare dell’esercito. L’imperatore, re di tutti i Romani, re di tutti i Nani, viveva molto lontano, «quasi come una figura del mito». I Romani, come i Nani, prediligevano nel combattimento l’uso delle pesanti macchine da guerra e non amavano i cavalli se non per gli spostamenti e le esplorazioni. Le formazioni compatte di manipoli, coorti e centurie, avanzando lentamente e inesorabili come torri, sfondavano le fragili resistenze delle orde barbariche lanciate contro di esse alla ricerca di singoli ed eroici duelli. Anche negli scontri a singolar tenzone, i fanti romani sapevano combattere e vendevano cara la pelle sfruttando proprio la loro bassa statura come ci mostra in modo eloquente un passo della Storia di Roma di Tito Livio laddove si parla del duello nel 361 a.C. tra il giovane Tito Manlio Torquato e un immenso guerriero gallo.
Conclusione di Carpegna Falconieri: le legioni romane stanziate sul limes del Reno furono la radice storica dalla quale si dipartì il frondoso albero del mitico popolo dei Nani. Convincente. I Nani siamo noi. Quantomeno i nostri antenati.