il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2025
Senti chi parla. Il contagio del “ciao caro” e la prepotenza dall’“altra parte del banco”
Ciao Caro. Darei chissà cosa per sapere chi ha incominciato a dirlo. In quale bar, in quale ristorante, in quale supermercato, è iniziata questa specie di rivoluzione barbarica del linguaggio che travolge costumi, abitudini e buona creanza. Ogni tanto penso (oh, la banalità) che mi piacerebbe vedere in foto chi se l’è inventata un giorno per gestire le sue difficoltà relazionali, o chi l’ha insegnata invece ai propri dipendenti per formarli a una socialità giovane e anticonformista.
A me capitò di imbattermi per la prima volta nel nuovo rito comunicativo alla stazione di Bologna (e già qui mescoliamo il sacro col profano). Ricordo che mi si rivolse così un giovanissimo cassiere e che io mi girai d’istinto per vedere se stesse parlando con qualcuno dietro di me. Che so, un amico o un collega. Per rendermi conto di essere invece io il destinatario di quella strampalata formula. Abbozzai, leggermente irritato e pensando di trovarmi davanti a uno squinternato giovanotto privo di mamma e di papà educanti. Scoprii nel giro di qualche mese che funzionava così in tutta Italia, specialmente nell’Italia del Nord. Una misteriosa malattia stava contagiando tutti i luoghi di pubblico ritrovo. Ciao caro. Da delibare nell’abbinamento senz’altro geniale delle parole. Il “ciao” più il “caro”. Il ciao disinvolto del ventenne al sessantenne sconosciuto. E il caro come l’affettuosa pacca sulla spalla al bimbo che suscita sentimenti di protezione o al vecchio in ospedale. Dal punto di vista della comunicazione un potenziale disastro. Un uno-due d’immagine da impallidire. Su cui, accorgendosi del contagio, sarebbero dovuti subito intervenire i padroni dei bar, o almeno i dipendenti più anziani. Ai quali però la moda deve essere piaciuta assai, dovendogli esser parsa un modo ganzo per ringiovanire il locale, qui siamo tutti “raga”, e anche i vecchi si sentiranno ben accolti, proprio come in ospedale.
Dice che è colpa dei sempre più numerosi dipendenti stranieri che sanno solo il “ciao”, una delle più internazionali delle nostre parole, e che pensano che caro sia un complimento. Siccome un po’ osservo (anche gli attimi più futili spiegano una società) mi sono reso invece conto che è il contrario. Sono soprattutto i bianchi di buona e robusta costituzione a esprimersi così. Lo so, vi chiederete che cosa me ne possa importare di queste cose con quello che succede nel mondo. E me lo chiedevo anch’io, finché non ho capito le ragioni più riposte della mia inquietudine. Che ora vi dirò. Il fatto è che in questa moda sciagurata che appare celebrare la socialità e l’uguaglianza, non c’è solo il trionfo della maleducazione che inonda politica e tivù. C’è – melliflua, insidiosa – l’antica funzione padronale dell’“altra parte del banco”, eredità apparentemente lontanissima di un paese in cui chi aveva una sedia o una divisa e magari un vetro divisorio trattava chi gli stava di fronte convinto di potergli dettar legge. Sono io che decido di darti del tu, sono io che ti do la pacca sulla spalla anche se non ti ho mai visto. E devi pure pagare per farti trattare così.
Mi vengono in mente certe file alle poste con l’impiegato che si alzava e si assentava a suo piacimento e intimava di “non alzare la voce” a chi non stava al gioco. O certi vigili che davano del tu ai cittadini senza cravatta. Ecco, qui il fenomeno è più sottile. Ha un’aria perfino confidenziale. Ma il fatto è che c’è un “diritto di stile” imposto da chi sta dall’altra parte del banco, e questo continua a non piacermi. L’egualitarismo sta solo nel fatto che anche il commesso, oltre il tuo capufficio, ti può imporre una modalità di relazione. Cose veloci, veniali, ma bisogna che abbiano il loro nome. Perché è quando non sappiamo descrivere le cose che alla fine le cose ci sommergono. Specialmente se i bar aumentano e le nostre maggiori città diventano, loro, degli immensi bar a cielo aperto.