il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2025
Ilva, il lungo addio all’acciaio pesa su tutto il sistema Paese
La parola “crisi”, per chi si occupa di questioni industriali in Italia, è ormai sinonimo di ex Ilva di Taranto. Siamo all’ennesimo capitolo di una vicenda che si trascina da quasi un decennio. In queste settimane si assiste a un goffo e futile tentativo di messa all’asta di uno dei principali asset produttivi del nostro Paese. Goffo, perché non vi è un chiaro indirizzo strategico da parte del governo su obiettivi di produzione, investimenti e decarbonizzazione, da attuare in sinergia con il resto del comparto nazionale e con le industrie utilizzatrici. Futile, perché nessuno degli acquirenti interessati è un soggetto capace, per risorse e competenze industriali, di gestire e rilanciare l’intero complesso aziendale.
Non a caso, si profila la possibilità che si faccia spezzatino di attività del gruppo e che anche l’ultimo altoforno di Taranto si spenga per sempre. L’Italia sarebbe così il primo Paese del G7 ad abbandonare la produzione di acciaio primario, quello realizzato a partire dal minerale di ferro.
“Io difendo la siderurgia, perché la ritengo base essenziale, indispensabile per l’industria meccanica”. Così dichiarava Oscar Sinigaglia, presidente della Finsider e fautore della ricostruzione post-bellica, durante il dibattito alla Costituente nel 1946. In effetti, ben poco del declamato Made in Italy uscito dalle fabbriche nazionali nei successivi decenni ha potuto prescindere dal successo del “piano Sinigaglia” per la siderurgia. Quando 50 anni fa l’Italia divenne il secondo produttore europeo di acciaio, sopravanzando Francia e Regno Unito, la produzione nazionale aveva stabilmente raggiunto le 21 milioni di tonnellate all’anno, un volume superiore a quello del 2024. Nel complesso, le aziende siderurgiche del gruppo pubblico Iri sfornavano il 59% dell’acciaio nazionale, grazie al contributo dello stabilimento di Taranto che superava la soglia dei 7 milioni.
Oggi l’Italia rimane seconda solo alla Germania in Europa per quantità di acciaio prodotto, con punte di eccellenza come i tubi della Dalmine (Gruppo Tenaris) e gli acciai speciali di Terni (Gruppo Arvedi), due ex gioielli della siderurgia pubblica. Ma con la produzione da altoforno a Taranto scesa a circa 2 milioni nel 2024, l’89% dell’acciaio prodotto in Italia viene realizzato tramite forni elettrici.
I forni elettrici fondono il rottame riciclato e lo trasformano in nuovo acciaio. I produttori possono specializzarsi in semi-lavorati adatti alle esigenze delle industrie consumatrici a valle e navigare il mercato anche in una situazione di crisi. Ma l’acciaio “secondario” ha dei limiti strutturali: le impurità di contaminazione del rottame permettono sì di realizzare prodotti lunghi per impieghi infrastrutturali (rotaie, barre, tubi, travi), tuttavia non garantiscono standard di qualità adeguati per alcune varietà di prodotti piani (nastri, bande, lamiere) che sono prevalentemente impiegati nella manifattura avanzata, fra cui l’industria automobilistica. Inoltre, senza produzione primaria non vi è garanzia futura di disponibilità del rottame, un materiale assai poco scambiato a livello internazionale (meno di un quarto rispetto al consumo mondiale) e soggetto a forti fluttuazioni di prezzo.
Per alcune attività manifatturiere, poi, l’abbandono dell’acciaio primario implicherà una dipendenza estera strutturale dall’importazione di semi-lavorati. Una minaccia alla sicurezza economica nazionale, in un contesto di crisi strutturale europea del settore e di turbolenze commerciali scatenate dalla guerra dei dazi sui prodotti siderurgici.
La crisi della siderurgia primaria è soprattutto europea e non riguarda solamente l’Italia. Nel 2024 ArcelorMittal ha deciso di posticipare i piani di transizione dei propri impianti. ThyssenKrupp ha annunciato esuberi per 11mila addetti entro il 2030. Lo scorso aprile il governo britannico è intervenuto a salvare l’ultimo impianto nazionale a ciclo integrale.
Le cause di questa crisi sono cicliche e strutturali. In primo luogo, la domanda di acciaio è anemica per via dell’attuale fase economica di stagnazione, ma anche perché continua ad avanzare il processo di deindustrializzazione della manifattura europea.
La scarsità di domanda si traduce in sovracapacità produttiva, che spinge i prezzi verso il basso, col risultato di ottenere minori ricavi a parità dei volumi di vendita. La capacità produttiva in eccesso è ulteriormente accentuata dal ribilanciamento della produzione siderurgica globale avvenuto negli ultimi 25 anni. Se nel 2000 i Paesi del G7 producevano il 39,4% dell’acciaio mondiale contro il 30,9% dell’attuale gruppo dei Brics+, oggi i primi sono scesi al 13,1% e i secondi, trainati dalla Cina, superano invece il 70%. Inoltre, i bilanci delle siderurgie europee sono gravati da costi dell’energia assolutamente non competitivi rispetto ad altre aree mondiali.
Infine, dal 2026 le assegnazioni gratuite di permessi di emissione, all’interno del sistema europeo di scambio di quote di emissione (Ets), inizieranno gradualmente a terminare, comportando ulteriori aggravi di costo per le produzioni più inquinanti. Si ricordi che, in media, la siderurgia da altoforno genera 2 tonnellate di CO2 ₂per tonnellata d’acciaio prodotta, contro circa 0,4 tonnellate nel caso della produzione di acciaio secondario (con l’attuale composizione di generazione elettrica prelevata dalla rete).
Tuttavia, il declino della siderurgia primaria italiana è stato più acuto che altrove: la media della produzione da altoforno nell’Ue è del 56,5%, contro appena l’11% in Italia. Si può imputare questo risultato alla fine dell’intervento pubblico diretto nel settore, benché la siderurgia primaria ex pubblica sia stata privatizzata in diversi altri Paesi europei. Ma lo si è fatto con criteri, vincoli e garanzie che non sono stati esercitati nel caso italiano, in cui è prevalsa la logica miope di “fare cassa” e si è abbandonata la programmazione siderurgica nazionale a quelli che allora erano soggetti privati di dimensione media (i Lucchini a Piombino e i Riva a Genova e Taranto), con scarsa e solo recente esperienza nella gestione di grandi impianti d’altoforno.
Altrove si scelsero continuità o alleanze strategiche fra campioni nazionali. Le siderurgie di Spagna (Aceralia), Francia (Usinor), Belgio (Cokerill-Sambre) e Lussemburgo (Arbed) furono razionalizzate in un unico soggetto, oggi la componente europea di ArcelorMittal. In Germania (ThyssenKrupp, Salzgitter, Shs) e in Austria (Voestalpine), la proprietà dei principali centri siderurgici primari è rimasta saldamente in mano a capitale industriale nazionale di lungo corso. Mentre in Italia – e in Gran Bretagna, con risultati simili – l’approccio fallimentare alle privatizzazioni della siderurgia primaria ha innescato una serie interminabile e travagliata di passaggi societari.
A Taranto, dopo l’esperienza Riva, in poco più di 10 anni si è passati attraverso due amministrazioni straordinarie, una proprietà privata (ArcelorMittal) e una mista pubblico-privata (Acciaierie d’Italia). Un’instabilità societaria deleteria per un settore ad alta intensità di capitale come l’acciaio, che richiede lunghi cicli di investimento, inclusi quelli per la decarbonizzazione. A tal proposito il contro-esempio tedesco è illuminante. In anni recenti il governo di Berlino ha stanziato 7,3 miliardi di euro per la costruzione di 5 impianti di preridotto (Dri), associati a 8 nuovi forni elettrici, che andranno a sostituire i 15 altoforni esistenti. L’Italia, nonostante eccella nell’ingegneristica del preridotto con la tecnologia Tenova-Danieli, non ha un singolo impianto Dri in realizzazione, dopo il naufragio del progetto di costruirlo a Taranto con risorse Pnrr sotto la gestione di una società al 100% pubblica (controllata da Invitalia).
In un universo parallelo sulle potenzialità della decarbonizzazione di Taranto si sarebbero potuti sviluppare nuovi ecosistemi di competitività per l’industria nazionale. Ma sembra che oggi ci si possa solo rassegnare ai rimpianti del condizionale passato, a partire dalla nazionalizzazione dell’ex Ilva, già prima del 2018 e della vendita a un concorrente interessato a diminuire capacità produttiva in Europa. O ancora all’occasione perduta di installare massiccia capacità rinnovabile per produrre idrogeno verde da impiegare in impianti Dri e per alimentare i forni elettrici combinati. Una leva di domanda su cui si sarebbe potuto costruire una filiera allargata dell’eolico a Taranto, dove già Vestas produce le pale per le turbine.
Eppure non sarebbe troppo tardi per volgere al presente questo piano possibilistico. Come scriveva Dino Buzzati nel 1962, “anche dalla nuda crudezza dell’acciaio può venire la dolce speranza”. Ma la speranza da sola non basta: servono scelte politiche e industriali coraggiose, come fu quella del piano Sinigaglia ottant’anni fa.