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 2025  ottobre 06 Lunedì calendario

Cervelli senza ritorno

I “cervelli in fuga” non fanno più ritorno in Italia. Stando alle stime del gruppo Controesodo, il flusso dei rimpatri quest’anno è dimezzato: 55% in meno rispetto al 2023. Un crollo che segue la battuta d’arresto del 2024 (chiuso con meno 40% di rientri). All’origine del calo, la modifica del regime impatriati che ha reso meno conveniente il ritorno a casa degli expat. Vediamo perché.
Stando ai dati Istat, elaborati sulle iscrizioni all’Aire 2014-2023, più di un milione di connazionali ha lasciato il Paese. E, dopo un breve rallentamento, il fenomeno ha ripreso quota
. I governi sono intervenuti a partire dal 2010, quando fu varato il “regime agevolato per docenti e ricercatori” (abbattimento del reddito imponibile del 90% per 4 anni d’imposta). Nel 2015 viene introdotto il “regime impatriati” per attrarre risorse di altri settori con un’agevolazione fiscale, ampliata fra il 2017 e il 2022. L’ultima versione offriva una riduzione della base imponibile del 70% per i redditi da lavoro dipendente o assimilato, autonomo o di impresa (ancora maggiore per un trasferimento al Sud o nelle due isole maggiori). Tutto senza limiti di reddito e per cinque anni, a patto di rispettare alcune condizioni. Il beneficio poteva essere esteso per altri cinque anni in presenza di un “indice di radicamento": diventare proprietario di un immobile a uso residenziale o avere almeno un figlio minore a carico.
Molti “cervelli”, dunque, sono rientrati. L’analisi dati Irpef nell’anno d’imposta 2023 parla di 41.020 lavoratori dipendenti per il regime impatriati e 4.102 del regime “ricercatori e docenti”. Ma la misura costa. Stando al Rapporto sulle spese fiscali 2024 del Mef, la spesa (fra vecchi e nuovi beneficiari) calcola circa 1,5 miliardi di euro all’anno per il 2025-2027 (nel triennio precedente, era poco più di 673 milioni di euro all’anno).
La stretta arriva a fine 2023. Il nuovo regime impatriati riconosce un’agevolazione solo per cinque anni e fissa paletti più stringenti: base imponibile al 50% (40% solo a chi ha almeno un figlio minore a carico), tetto di reddito annuo fissato a 600 mila euro (dunque, beneficio fiscale su un massimo di 300mila euro), possesso di «elevata qualificazione e specializzazione» (almeno una laurea triennale, qualifica professionale di vari livelli), esclusione dei redditi d’impresa. Criteri più rigidi anche per le condizioni ai fini della residenza fiscale.
Per il responsabile del Mef Giancarlo Giorgetti, la ratio sanava «un utilizzo improprio»: il canale sarebbe stato usato da multinazionali per distacchi di top manager e trasferimenti infragruppo di natura spesso elusiva. Ma si rischia l’effetto boomerang. «Secondo i nostri sondaggi, l’incentivo fiscale è ritenuto “fondamentale” per il rientro», spiega Michele Valentini, expat tornato dopo dieci anni in Regno Unito e fondatore nel 2015 del gruppo Controesodo. «Il motivo è semplice: altrove, le retribuzioni sono più alte e nessuno trova appetibile uno stipendio sensibilmente più basso. Vanno considerati, inoltre, i vantaggi: il gettito in più, che altrimenti non ci sarebbe e l’impatto sui consumi». Anche per le casse Inps, l’apporto è notevole: l’ultimo rapporto dell’istituto previdenziale quantifica il monte contributivo versato dai rimpatriati in 920 milioni di euro nel 2023 rispetto ad appena 33 milioni di euro del 2016.
Sul tavolo, ora, c’è una proposta per reinserire la proroga nel nuovo regime. «L’ipotesi è di estendere il beneficio altri tre anni a quanti investono in società italiane, acquistano titoli di Stato, finanziano start-up innovative», precisa ancora Michele Valentini del gruppo Controesodo. «Ci auguriamo sia presa in considerazione nella stesura della prossima Legge di bilancio».
Nel frattempo, chi rientra si ritrova alle prese con il caos della burocrazia italica. «Le linee guida non sono chiare e il linguaggio complesso», racconta Stefano Schenone, 35 anni, ricercatore in Biologia marina di ritorno a Genova dopo nove anni in Nuova Zelanda. «Io e mia moglie ci siamo rivolti a un Caf ma non avevano idea di che cosa stessimo parlando – racconta –. I direttori del personale non sanno dell’autocertificazione e, a quanto pare, non esiste una modulistica ufficiale». Le aziende, in particolare le piccole e medie, non conoscono la procedura: per godere del beneficio fiscale, serve una dichiarazione scritta del rimpatriato ed è il datore di lavoro a doverlo applicare in busta paga (molti spingono a utilizzare la detrazione ma non è così). E non è tutto. «Gli incentivi ci hanno dato la spinta ma, professionalmente, è stato un passo indietro», prosegue Schenone. «Mia moglie, ricercatrice di Scienze ambientali, ha lasciato un posto a tempo indeterminato per un contratto di collaborazione, peraltro a Roma. Io, per il momento, non usufruisco del regime agevolato perché continuo a lavorare da remoto per la mia università neozelandese. Ho tentato decine di candidature ma la fine del Pnnr sta creando un collo di bottiglia: troppi candidati per poche posizioni».
Basta un giro sui social per capire che i dubbi sono tanti e ci si arrangia fra gruppi di rimpatriati. «Sono calabrese laureato a Milano ma, dopo venti anni a Londra, è stato un trauma», confessa Marco Pinnarelli, 47 anni, responsabile delle operazioni di investimenti in Borsa rientrato due anni fa. «Complicazioni per la carta d’identità e il codice fiscale. Per la patente, dopo aver letto l’iter, mi sono rivolto a un’agenzia. Mia moglie, ucraina, è una libera professionista con partita iva: prima faceva tutto in pochi passaggi, ora ne servono decine. Non parliamo dell’affitto di casa: da italiano, sono basito dalle richieste». Senza contare l’impatto con il mondo del lavoro. «Dopo quattro anni a Parigi e sette da docente universitaria in una città al nord dell’Inghilterra, con la Brexit il clima era cambiato e l’agevolazione fiscale è stata determinante per tornare a Bologna» chiarisce Eleonora Morganti, 45 anni, marito americano e due figli piccoli nati su suolo britannico. «Ho dovuto cambiare lavoro: contratto da project manager, quindi agevolazione più bassa. Ma il punto è un altro: spesso i miei superiori erano donne e anche se uomini non avevano problemi a prendere congedi per i figli. Qui, la struttura è maschile e tutto molto statico: è difficile ritrovarsi in questo modello».