corriere.it, 6 ottobre 2025
La discesa record dei salari reali in Italia (con il boom degli utili d’impresa): cosa c’è dietro la collera degli italiani
Nel mio quartiere di Roma le bandiere palestinesi sono ovunque. Ed è comprensibile. Impossibile non provare solidarietà e collera per la sorte della popolazione civile di Gaza, doppiamente vittima. Vittima del cinismo del governo di Israele, indifferente alle migliaia di innocenti uccisi o affamati come «danni collaterali» pur di colpire le milizie di Hamas. E vittima del cinismo di Hamas stessa, che ha deliberatamente fatto degli abitanti della Striscia degli scudi umani o li ha offerti in sacrificio – nascondendo le basi e le fabbriche di armi sotto gli ospedali o vicino alle scuole – per mostrare al mondo la spietatezza di Benjamin Netanyahu e così isolarlo. Naturalmente mi chiedo perché non si vedano anche bandiere ucraine, fuori dalle finestre.
L’ondata di proteste
Ma proprio questa differenza mi ha costretto a pensare. Oggi vorrei parlare di come l’ondata di proteste che infiamma l’Italia attorno a Gaza si spieghi – sospetto – non solo con le dinamiche del Medio Oriente, ma anche con quelle della società e dell’economia del nostro Paese. Per questo mi ha colpito la lettura che Gianluca Mercuri nella newsletter del «Corriere» Prima Ora venerdì (qui per iscriversi) dà delle reazioni così diverse di tante persone in Italia su Gaza e sull’Ucraina. In pochissimi casi – credo – ci saranno ragioni di cui gli stessi interessati preferiscono non parlare. In moltissimi casi invece, scrive Gianluca, «c’è la percezione che l’Ucraina la stiamo aiutando in tutti i modi (…) mentre i civili palestinesi vengono massacrati senza che si faccia il possibile per fermare Israele. Per questo Gaza, per moltissimi italiani, è assurta a simbolo di un’ingiustizia insopportabile».
Italiani a livello Gaza
Davvero acuto. Ma se è così, allora in tanti italiani dev’essere scattata un’identificazione con le vittime: quelle di cui nessuno si interessa, ignorate da tutti e schiacciate ingiustamente in un gioco di cui solo loro pagano il prezzo. Non fosse quasi blasfemo, direi che molti italiani si sentono a qualche livello Gaza. Sono loro le vittime non di una guerra, ma dell’economia del Paese. Com’è possibile altrimenti che dal punto basso del Covid (2020) l’Italia sia cresciuta del 16,6%, superando di netto il 12,3% medio dell’area euro, mentre il valore reale dei salari nel Paese segna una discesa così profonda da rappresentare quasi un record nel mondo avanzato?
Il costo dell’inflazione
Dove sono andati i soldi di quella crescita in più? Chi li ha intercettati e perché? Certo non sono nelle tasche dei 16,5 milioni di lavoratori dipendenti che per vent’anni di stagnazione e crisi avevano già tenuto duro, fino alla pandemia: questi sono gli stessi che non possono evadere un centesimo, né accedere ad alcuno dei mille regimi fiscali di favore di cui è crivellato il sistema e ora, dopo la grande inflazione del 2021-2023, vedono il loro potere d’acquisto crollare. La mobilitazione di massa per Gaza esplode in questo contesto, prendendo di sorpresa partiti, sindacati, think tank, media, governo, opposizione.
L’equazione con i Gilet giali
E mi chiedo se Gaza non sia oggi per l’Italia ciò che i gilet gialli furono per la Francia: una preoccupazione genuina e legittima sì, assolutamente, ma anche l’esplosione spontanea di un malessere più profondo che non andrà via tanto presto. Neanche con il piano di pace di Donald Trump o con qualche piccolo sconto fiscale in manovra.
"Anomalia” in busta paga
Quella che vedete sopra è l’anomalia italiana di questi anni fotografata dalla Banca centrale europea: potere d’acquisto delle buste paga sceso del 5,8% dalla fine del 2021 alla primavera di quest’anno. L’Italia è di gran lunga il grande Paese dell’area euro che nel quale si è perso più valore reale dei salari (cioè parametrato ai prezzi), mentre in Spagna o Paesi Bassi esso è persino salito.
Il calo dei salari reali del 7,5%
A seconda del modo e dei tempi su cui si misura il fenomeno possono esserci stime diverse, per esempio l’Ocse vede in Italia un calo di salari e stipendi reali del 7,5% dall’inizio del 2021 a tutto il 2024. Solo in Repubblica ceca e in Svezia si è perso più terreno, fra i 38 Paesi del gruppo. Ma la sostanza resta. Ed è anche più problematica per le buste paga minori, perché sui redditi più bassi la spesa per alimenti pesa di più mentre l’inflazione alimentare dal 2021 è cresciuta anche più di quella generale (come si vede nel grafico sotto, sempre della Bce). La perdita di potere d’acquisto per i lavoratori dipendenti che guadagnano meno è stata persino più forte. Il Paese è divenuto più diseguale.
A chi i frutti del PIL
Il paradosso è che, stavolta, tutto questo non succede in una fase recessiva. Nelle recessioni di solito si innesca sulle dinamiche dei salari un’austerità privata, come nel 2009-2014. Negli ultimi cinque anni invece nel complesso l’economia è cresciuta (anche se negli ultimi due ha perso slancio), mentre i lavoratori dipendenti non se ne sono neanche accorti. Ma se il fatturato dell’Italia aumenta in queste condizioni, significa che qualcun altro deve aver catturato i frutti di tutta questa crescita.
Chi ha avuto il vantaggio
Sono stati i lavoratori autonomi, gli azionisti delle società quotate o no, i gestori del risparmio finanziario delle famiglie da circa cinquemila miliardi? È stato il bilancio pubblico? O le società partecipate e controllate dallo Stato con il loro potere nei mercati regolamentati, i grandi manager delle aziende di successo con i loro pacchetti di stock option, o magari le società manifatturiere che competono sui mercati globali?
La redistribuzione dei redditi
So che suona populista, ma la matematica suggerisce che in questi anni è avvenuta una profonda redistribuzione dal lavoro dipendente verso qualche altra direzione. È la grande questione economica di questi anni e – ripeto – la frustrazione che essa alimenta dev’essere inevitabilmente un sostrato, un propellente dei milioni di italiani scesi in sciopero e nelle piazze in questi giorni (senza che ciò tolga legittimità alla preoccupazione legittima per Gaza, ovvio).
Il sistema dei contratti
La dinamica a danno delle buste paga resta in buona parte da studiare e non risolverò certo il mistero nelle prossime righe. Ma qualche indizio emerge dai conti delle imprese e dalle analisi di chi conosce meglio la questione. Probabilmente non c’è un disegno consapevole, ma siamo di fronte a un’economia che si chiude per inerzia sui suoi assetti di potere mentre alcune delle sue istituzioni vitali invecchiano e diventano sclerotiche. Marco Leonardi dell’Università di Milano scrive da tempo su un sistema di rinnovi dei contratti che ha smesso di funzionare perché ha regole obsolete riguardo ai minimi legali, alla rappresentanza, alla frequenza dei contratti stessi, agli indici di inflazione di cui tenere conto e ai modi di eliminare i continui ritardi nei rinnovi che falcidiano il potere d’acquisto.
I bilanci delle Big
Per provare a capire però chi ne beneficia bisogna vedere – in aggregato, per categoria – i bilanci delle imprese. Quotate o meno. A controllo pubblico o meno. Non ne beneficiano per esempio granché le società quotate del settore auto e relative componenti, perché il loro risultato operativo (utile prima di pagare le tasse e gli interessi sul debito) è nel complesso ridotto e in calo dal 4% del 2024 a un 2,3% del fatturato quest’anno, secondo gli analisti. Mediobanca nel suo ultimo rapporto sulle società italiane mostra che le società manifatturiere nel complesso hanno un risultato operativo tutt’altro che sovrabbondante (in media del 6,4% del fatturato) e si capisce perché: queste aziende non hanno clienti «prigionieri» a loro disposizione, ma competono accanitamente anche sul prezzo sui mercati globali contro imprese di tutto il mondo.
I settori coinvolti
Almeno in alcuni di questi settori (auto, metallurgia, costruzioni, elettronica, tessile, abbigliamento) nell’ultimo decennio le buste paga lorde sono cresciute più o meno in linea con la capacità di creare valore delle imprese in un tempo dato di lavoro. Dunque gli squilibri non vanno cercati lì. Non principalmente. Già, ma il resto del sistema? Secondo gli analisti più attenti di Piazza Affari, quest’anno solo le grandi banche italiane quotate in borsa arriveranno a un fatturato di 75,5 miliardi di euro (quasi quattro punti di prodotto interno lordo) e avranno un risultato netto di 27,5 miliardi di euro.
Gli utili delle banche
Si tratta di più di un punto di Pil di puro utile da incamerare, dopo aver pagato tasse e interessi. Ciò comporta una redditività netta di settore del 36%: sei volte più di quella lorda – probabilmente dieci volte più di quella netta – rispetto al settore manifatturiero al quale le banche stesse estendono prestiti. A che condizioni vengono offerti quei prestiti, a quali costi viene gestito il risparmio delle famiglie e delle imprese? Ho già mostrato in passato che l’Italia ha la gestione del risparmio più cara (per i clienti) al mondo e che non mancano sospetti di collusione sulle condizioni di credito. Ma l’Antitrust nel Paese sembra essere improntata sempre più all’antica massima: forte coi deboli e debole coi forti.
L’operazione Mediobanca
Cambierà tutto adesso che il governo entra negli assetti di controllo di Mediobanca stessa e dunque di Generali e Banca Generali? Non so. Vedo però cosa accade con le società a controllo pubblico, secondo l’ultimo rapporto di Mediobanca stessa citato sopra.
Chi piglia (quasi) tutto
Il grafico sopra mostra che la redditività, cioè la capacità di guadagnare, delle società a controllo pubblico è semplicemente esplosa negli ultimi due o tre anni. Il margine operativo delle società a controllo pubblico è salito dal 4,5% del 2022 al 9,5% del 2024, praticamente il doppio rispetto alla media delle società private di tutti i settori (5%). In realtà è esploso anche il puro e semplice fatturato delle società a controllo pubblico, che è l’altra faccia dei costi che gli italiani sostengono che avere tutti i servizi che le società a controllo pubblico forniscono.
Quelle a controllo pubblico
I fatturati di queste società a controllo pubblico esplodono dal 129,6 miliardi nel 2019 a 166,9 del 2024, secondo il rapporto di Mediobanca: più 28,7%, cioè undici punti più dell’inflazione. Queste aziende incassano una quarantina di miliardi più di dieci anni fa, ossia due punti di prodotto lordo. E peraltro pagano malamente e in maniera ingenerosa i loro dipendenti: il rapporto Mediobanca mostra che nelle società a controllo pubblico la capacità di creare valore in un’ora di lavoro è cresciuta negli ultimi dieci anni cinque volte più delle buste paga lorde e che i salari dei dipendenti hanno perso quasi il 9% di potere d’acquisto dal 2021.
I dividendi al Tesoro
Inizio ad avere un’idea su dove siano andati parte dei frutti della crescita che i lavoratori non hanno visto: dividendi al dipartimento del Tesoro, stipendi o stock option ai grandi manager delle società quotate o meno a controllo pubblico, redditi da capitale per chi ha abbastanza risparmio per beneficiare dell’aumento dei prezzi dei titoli grandi gruppi partecipati dallo Stato sui listini azionari.
Politica dei redditi
Voglio essere più concreto: le cosiddette «public utilities» quotate in borsa, cioè le grandi società di rete, complessivamente vedono il loro fatturato salire da 125 miliardi di euro nel 2024 a 138 circa nel 2025. È un aumento di ben oltre cinque volte l’inflazione. Sono soldi che escono dalle tasche degli italiani, andando a generare per le imprese che li incassano un utile molto superiore a quelle delle imprese manifatturiere in lotta sui mercati aperti del mondo.
Il rapporto Mediobanca
Conclude Mediobanca nel suo rapporto: in Italia «si pone un tema di politica dei redditi in considerazione del fatto che, per un buon numero di raggruppamenti di imprese, la generazione di valore avrebbe consentito di redistribuire una parte a beneficio della conservazione del potere d’acquisto delle retribuzioni». E ciò «senza compromettere la congruità della remunerazione dell’azionista».
Detto con meno eleganza: tante imprese in Italia guadagnano così tanto che potrebbero almeno tutelare la paga dei dipendenti, senza torcere un capello ai proprietari. Mediobanca parla di circa quattromila euro di aumenti possibili in media nazionale, molto di più per le società partecipate.
Far funzionare il capitalismo
L’Italia invece sta diventando un posto più diseguale, anche per il potere delle società in rete pubbliche e private di dettare le condizioni commerciali ai clienti. I sindacati, le opposizioni, i partiti e il governo stesso non sembrano volere o saper capire e reagire. Sono sempre colti di sorpresa. Eppure non si tratterebbe di sovvertire il capitalismo, solo di farlo funzionare in modo sano.
Intanto la lava della pressione sociale sobbolle giusto sotto la superficie. Oggi ha preso la direzione dei cortei per Gaza. Domani, chissà.