Corriere della Sera, 6 ottobre 2025
Le urne vuote e le piazze piene
I seggi sono vuoti e le piazze sono piene. L’apparente contraddizione permette di riflettere sul rapporto tra i cittadini e i valori nei quali crediamo. Molte migliaia di cittadini hanno voluto manifestare non solo solidarietà nei confronti delle vittime della guerra di Gaza, ma anche fiducia in un mondo dove i bambini non debbano morire per fame, le popolazioni non siano costrette con la violenza a spostarsi da una tendopoli all’altra, dove gli ospedali non siano bombardati e i feriti non siano operati senza anestesia perché l’esercito occupante ha vietato i farmaci; un mondo in cui nessuno possa impedire di dare biscotti e miele a donne e bambini perché troppo proteici, né dove un ministro possa dire: se serve un boia ci sono qui io, anche per i bambini. Non c’era rabbia in quelle famiglie che sfilavano, in quegli insegnanti che accompagnavano i propri studenti, nei giovani e negli anziani, nelle coppie e nelle persone che erano scese da sole; c’era la consapevolezza che ad un certo punto l’umanità pretende i suoi diritti. La strage del 7 ottobre e il genocidio dei lager hanno una loro quasi sacra intangibilità; quella strage, come ha detto il presidente del Consiglio, non può giustificare gli eccidi di Gaza. La Shoah non può essere usata come strumento per respingere le critiche. Ci sono certamente rigurgiti di antisemitismo, sempre e da sempre presenti in quasi tutte le parti del mondo; ci sono imbecilli, spesso in cattiva fede, che credono di battersi per la libertà mettendosi una Kefiah, urlando contro Israele, inneggiando al 7 ottobre, bloccando le stazioni e aggredendo le forze di polizia. Gli imbecilli hanno proclamato la lotta armata; non sanno che l’abbiamo già avuta nelle stazioni, sui treni, nelle strade e che è stata sconfitta da gente simile a quella che sfilava nei giorni scorsi e che ha sfilato anche in quegli anni isolando i terroristi di sinistra e di destra e dando più coraggio a che rischiava la vita per combatterli. Bisogna essere lucidamente e intransigentemente contro gli antisemiti e contro gli imbecilli. Ma questi miserabili non possono impedirci di essere solidali con chi ha manifestato nelle strade o nel Mediterraneo. Nessuno di quei cortei, nessuna di quelle barche ha salvato una vita umana; ma tante vite umane forse si sono sentite meno abbandonate, mentre pativano la fame nella polvere e nel fango di Gaza. Chi lavora davvero per la pace non può vedere in quei cortei un ostacolo. Al contrario, per loro dalle strade e dal mare è venuto un sostegno. La pace da una parte, la solidarietà dall’altra e l’una rafforza l’altra. La pace, la vita, non sono affari delegati in via esclusiva ai governanti; appartengono a tutti noi. La Costituzione disegna un’antropologia che non conosce l’indifferenza: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Quelle migliaia di persone hanno concorso al progresso spirituale della società. Racconta il Vangelo di Luca che un sacerdote e un levita, timorati di Dio, ossequiosi ai riti, rispettosi delle leggi, passano vicino ad un viandante gravemente ferito perché aggredito e rapinato da banditi; si accostano, guardano e vanno oltre. Li motiva la convenienza, il timore di esporsi, il dubbio di sbagliare; e poi non sanno se davvero quel ferito merita pietà. Passa un samaritano, che appartiene ad un popolo disprezzato perché considerato impuro. Il samaritano si avvicina e patisce la contorsione delle viscere, lo «splagchnizomai», come dice il Vangelo di Luca. Perciò si ferma, lo soccorre lo salva e salva se stesso perché la solidarietà salva chi ama, anche se impuro. Molti di quei cittadini scesi in piazza, di fronte al massacro di Gaza hanno patito lo «splagchnizomai» del samaritano. Altri fanno come il levita e il sacerdote, sicuri della loro buona ragione, tirano diritti per la loro strada, levano l’indice accusatore. E la morte sorride, perché diventa più forte.
Torniamo a noi. Ma se sono tante le persone che si sono mosse spontaneamente per difendere il valore della vita, per solidarietà con chi soffre, perché sono tante le persone che disertano le urne dove si sceglie chi governerà, chi organizzerà gli ospedali e le scuole, chi si occuperà di chi è debole e solo? Le organizzazioni politiche appaiono capaci di mettere in campo litigi banali, contrapposizioni sterili, insulti e denigrazioni reciproche, non valori, futuro, speranza, cose per le quali vale la pena di mobilitarsi, di dedicare tempo, di impegnarsi e lottare. Se questo accade, è normale rifiutarsi di scegliere. «L’onore – spiegò Roosevelt nel 1910 alla Sorbona – spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza». Ma quando la preoccupazione è solo quella di prendere un voto in più e non ci si preoccupa di scuotere coscienze e di suscitare speranze, l’onore spetta solo a chi ha sentito la contorsione delle viscere.