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 2025  ottobre 06 Lunedì calendario

Intervista a Giacomo Agostini

«Finalmente ha smesso di piovere. Ora prendo la moto e vado a fare i miei giri. La uso tutti i giorni». Giacomo Agostini, 83 anni, quindici titoli del mondo («Resto quello che ha vinto di più»), un’energia contagiosa, un pozzo di aneddoti. Stavolta ha deciso di raccontare anche quelli più intimi, familiari, nell’autobiografia Ago, una vita da campione in uscita domani, scritta insieme a Raffaele Sala.
Come va con la nipotina?
«Benissimo, fra poco arriva anche un nipotino. Emozionante».
Sentiva l’esigenza di svelare una parte più riservata della sua vita, perché?
«Avevo già fatto tre o quattro libri, sulle motociclette e le gare abbiamo detto quasi tutto. Qui invece c’è la mia vita: gli amici, i parenti, i cugini, i giochi dell’infanzia, la scuola».
Come era l’infanzia di Agostini?
«Con gli amici giocavamo con le biciclettine. Usavamo i tappi delle birre o delle aranciate, ci mettevamo dentro le foto dei ciclisti e facevamo a gara a chi li mandava più lontano o evitava ostacoli. Ero in Val Camonica».
C’erano già le due ruote nella sua vita...
«Seguivamo Bartali e Coppi, andavo in bici. Poi mi sono reso conto che si faticava, era meglio il motorino».
L’Aquilotto Bianchi, lo prese e non tornò più a casa.
«Dovevo ritirarlo: l’officina apriva alle 8, ero lì già alle 6 di mattina. Sono partito dimenticandomi che i miei genitori mi aspettavano, sono tornato alle 4 del pomeriggio, mi ero scordato di mangiare, di tutto. Tanta era l’emozione della libertà. Papà non la prese bene, ma quell’Aquilotto oggi lo tengo qui in casa».
A casa nessuno aveva la passione dei motori.
«Papà diceva: “Ma questo ragazzo da dove è venuto fuori?”».
Per lei invece era un sogno, quando è iniziato?
«Subito. Ma non mi bastava fare i giretti, volevo correre. E i miei non volevano assolutamente, era troppo pericoloso. Ogni domenica veniva a mancare qualcuno. C’è una frase che ancora mi ricordo, che ho capito soltanto con l’età».
Sarebbe?
«“Non firmo la morte di mio figlio”, così diceva mio padre. A diciotto anni la consideravo una sciocchezza».
A quei tempi il primo obiettivo era arrivare vivi al traguardo.
«Era proibito cadere».
Suo padre Aurelio le regalò anche una macchina speciale per distrarla dalle moto.
«A 18 anni volevo una Fiat 500, sarei stato felicissimo. Si presenta invece con l’Alfa Romeo Giulietta Sprint, un regalo così non me lo spiego. Poi capisco: voleva che dimenticassi le due ruote».
Ma non c’è stato niente da fare.
«Niente. Con tutti i miei amici condividevamo la passione per le moto».
Suo padre voleva che seguisse gli interessi di famiglia, cosa faceva?
«Era ragioniere. Aveva un’azienda di falegnameria che bruciò in tempo di guerra. E poi mise in piedi un’impresa di trasporti e di scavi e sbancamenti sul fiume Oglio».
A lei non piaceva?
«Invece mi piaceva, seguivo le sue attività. Ma non avrei mai immaginato di diventare ciò che sono diventato, che avrei potuto vivere della mia passione. A me bastava correre in moto».
Quando ha iniziato a capire che era possibile?
«Dopo la prima gara: secondo su 40 piloti».
Se la ricorda ancora?
«Certo, la Trento-Bondone. Correvo con una moto privata, la mia, il meccanico era il panettiere del paese. Gli ho chiesto di cambiare la candela ma non sapeva dove mettere le mani».
Almeno mangiava bene...
«Quello sì, pane e mortadella».
Cosa dicevano i suoi fratelli (Gabriele, Mauro e Felice) nel vederla correre?
«Erano subito diventati tifosi, Felice (scomparso nel 2021, ndr) anche correva, vinse nel motocross».
A 83 anni ha ancora parecchio dello spirito di quel ragazzo della Trento-Bondone. Qual è il segreto?
«Ci pensavo l’altro giorno: ho passato la prima domenica a casa dopo cinque mesi di viaggi».
Dove è stato tutto questo tempo?
«Germania, Olanda, Belgio, Francia. Gran premi di moto, manifestazioni motoristiche e non solo. Sempre in giro».
Non è stanco di girare?
«Se sto a casa dopo tre giorni mi lamento. Se sono via dopo tre giorni vorrei tornare a casa. Sarà l’età... Però tutto questo mi mantiene giovane: frequento un ambiente di ragazzi».
A proposito di viaggi, racconti di quella volta, nel 1974, che fu costretto a mangiare il sushi.
«E come dimenticarla? Il presidente della Yamaha mi portò in un ristorante famosissimo. Non amavo il pesce crudo, non era di moda come adesso, era la prima volta che lo assaggiavo. Non riuscivo nemmeno a deglutirlo».
Quindi?
«Il capo della squadra corse era imbarazzatissimo: “Non puoi non mangiarlo, altrimenti il presidente si offende. Ti ha portato in uno dei posti migliori del Giappone solo per farti provare questo sushi”. Alla fine un po’ l’ho mandato giù, un po’ l’ho nascosto nel tovagliolo. Ma poi capii che avevano un’attenzione unica per l’ospite, anche da altre cose».
Quali?
«Le poche volte che sono stato ricevuto dal presidente, ad accompagnarmi c’erano segretarie che s’inchinavano e lasciavano la stanza senza mai voltare le spalle. Me lo ricorderò per tutta la vita, in Italia ero abituato in maniera diversa».
Agostini: film, copertine, fotoromanzi. Tanti sportivi sono stati travolti dalla fama, lei no. Perché?
«Perché il mio sport veniva prima di tutto. Sapevo divertirmi, ricordo Lino Banfi che mi incoraggiava sul set, ma prima delle gare mi chiudevo: volevo vedere solo amici fidati, tecnici e meccanici. Non erano le gimcane del paese, ero un professionista e rappresentavo un marchio, la MV Agusta. Sono stato fra i primi ad avere un preparatore».
Enzo Ferrari voleva farla correre in auto.
«Ci incontravamo a Modena, in pista. Mi fece un test e andai bene, poi la proposta. Non dormivo la notte, poi decisi che Dio mi aveva dato la passione delle moto e il dono del talento. Per quale motivo avrei dovuto tradire le due ruote? Lo spiegai a Ferrari, restò un po’ così, poi mi disse: “Bravo, ti capisco”».
Il talento è un dono?
«Sì, ma va coltivato e allenato con sacrifici e volontà, se te ne sbatti non vai da nessuna parte. Però devi avere una base: è inutile che mi dedico al salto in alto se non ho doti, non diventerò mai Tamberi. Lo stesso vale in ogni altro campo».
Ha sposato Maria Ayuso nel 1988, cerimonia in moto, ma la sua carriera era finita. Una scelta precisa, anche questa.
«Quando correvo non cercavo legami, volevo essere libero. Non avrei retto di avere figli e moglie in pista a guardarmi partire senza sapere se sarei tornato vivo.
Correvamo con una scodella in testa, la mia tuta pesava 1 kg, quelle di adesso ne pesano 8. Non pensavi alla morte, ma le tragedie erano costanti. Scattava la rimozione dell’evento. Ma il pensiero della famiglia mi dava angoscia e mi avrebbe tolto grinta. Mi sono sposato in un’altra fase, mi sono goduto i figli (Vittoria e Piergiacomo, ndr)».
Come ha fatto a tenerli lontani dalle moto?
«Non li ho mai spinti, mio figlio l’ho mandato in Inghilterra a studiare».
Marc Marquez, ieri si è infortunato, ma è tornato a vincere il Mondiale dopo 6 anni. Che cosa ha di speciale?
«Bravo, furbo, intelligente, serio. È nato con il dono, ma lo cura come facevo io».
C’è qualcosa di Valentino Rossi che Agostini avrebbe voluto avere?
«No, ho avuto tanto ed era inimmaginabile. Anche Valentino ha avuto tanto».