il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2025
Fabrizio Bentivoglio, il mestiere dell’attore
Non sono proprio abituato.
A cosa?
Alle presentazioni con il pubblico.
Bello stupirsi.
Lo stupore nasce da un punto: ero convinto di aver scritto un manuale iper-specialistico, delle pagine adatte a studenti di recitazione.
Invece?
Ho scoperto che è per tutti.
Dal tono di voce sembra rammaricarsene.
Ma no, è solo che non l’avevo previsto; (pausa) in realtà era possibile immaginarlo, vista la curiosità che c’è ancora per il nostro mestiere (e ripete “nostro”, non “mio”).
Allora, bene.
Il bello è che il titolo e l’incipit, dedicato all’invisibilità, li ho tenuti per molto tempo chiusi in un cassetto, poi due anni fa li ho ritrovati e mi è sgorgato di getto tutto il resto: in due o tre settimane ho scritto tutto.
Come accade agli autori più consumati.
Non sapevo neanche cosa fosse; (pausa, voce molto bassa) un attore capisce quello che ha in mano solamente nel momento in cui lo rappresenta.
(Fabrizio Bentivoglio predica e pratica la sottrazione, l’invisibilità. Così quando recita, così nei panni dello scrittore: il suo primo libro, Piccolo almanacco dell’attore, in copertina non ha alcuna sua immagine acchiappa-fan; anzi la copertina, tutta giocata sui neri e sui grigi, è alquanto respingente, con il suo nome più piccolo del titolo stesso.
È un gioiellino.
Sincero, aperto, costruttivo, curioso. Dove anche l’aneddoto è funzionale al messaggio, dove l’aggettivo latita quanto il giudizio intrinseco su professione e umanità. Sembra quasi di ascoltare Franco Battiato quando cantava che alla fine “siamo solo di passaggio…”)
Insomma, pensava di rivolgersi solo ai suoi giovani colleghi.
I ragazzi si avvicinano al mondo attoriale con un po’ di leggerezza, senza comprendere bene quello che stanno per intraprendere.
Cosa?
Che è una strada più complicata di quello che può sembrare.
Apparenza e sostanza.
In realtà accade quello che abbiamo provato tutti davanti allo schermo del cinema: un attore bravo, quando recita, lo fa con una tale semplicità che noi, seduti in poltrona, siamo portati a pensare “lo saprei fare anche io”.
Mestiere pericoloso.
Se non affrontato nel modo giusto.
Perché?
È un mestiere che può generare frustrazione, delusione…
Invidia.
Direi spirito di emulazione; e poi ci sono i soliti luoghi comuni.
Quali?
Che l’attore deve risultare sfacciato; in realtà la maggior parte è timida.
Nel libri predica la sottrazione.
Più che suggerire qualcosa ho preferito suggestionare e probabilmente questa sottrazione è implicita.
Scomparire nel personaggio…
Mario Sesti ama ripetere una frase di Jeremy Irons. Per lui l’attore è chi può “abitare nella vita di un’altra persona, a tempo determinato”; se la vita è di quell’altro non ci puoi essere anche tu. Devi scomparire nell’altro.
Nel libro si definisce “giovane promessa dell’arte drammatica”.
È quello che dicevano di me quando avevo appena vent’anni e mi credevo un apprendista stregone; (abbassa la voce) ho avuto il privilegio di stare accanto a persone molto più avanti di me, e non solo per una questione di età…
Cita Romolo Valli.
Se uno mi chiede chi è stato il mio maestro, indico lui: l’ho incontrato quando avevo ancora tutto da scoprire e capire.
“Serio, distaccato, in realtà piangeva”, racconta lei.
In teoria si poteva inquadrare come un attore diderottiano, sempre presente a se stesso, nel totale controllo della situazione; invece una sera mi sono accorto che durante una scena, quando parlava dei suoi amici che non c’erano più, si commuoveva. Quelle lacrime, quella partecipazione, mi dimostrarono ben altro; (cambia tono della voce) bisogna stare sempre attenti quando si dà del diderottiano a qualcuno.
Volonté era diderottiano?
No, però anche lui era esattamente in controllo, riusciva a mantenere la lucidità in tutto; (silenzio) la nostra è una costruzione e per restare in piedi deve essere fatta bene, magari benissimo, altrimenti viene giù.
Vittorio De Sica imparava tutte le parti. Lei fa lo stesso?
È ingenuo pensare che basti solo la propria.
Non accade con tutti i suoi colleghi giovani.
Recentemente mi sono trovato sul set con attori che davanti alla frase del regista “dilla meglio”, hanno risposto: “È la prima volta che la pronuncio…”.
Eresia.
La prima volta? Quando si arriva sul set quella battuta uno la deve aver ripetuta centinaia di volte, pure nella sua testa, magari declamata in privato. Quella battuta deve essere tua. Come si può affermare “è la prima volta” senza vergognarsi? Poi ci sono le eccezioni.
Nelle eccezioni indica Diego Abatantuono.
Le battute le trasforma, le fa diventare altro, quindi con lui devi stare attentissimo: lo devi seguire perché è straordinario; (cambia tono) spesso il suo scopo sul set è quello di farti ridere, quindi ti manda fuori giri, e ci è riuscito anche con me. L’unico in cinquant’anni.
È una sorte di sfida tra attori.
Capita soprattutto a teatro, magari dopo la centesima replica, allora reciprocamente si cerca di far cadere l’altro.
Anche lei si adopera?
Certo. E ci sono riuscito.
Citazione del libro: “La nostra generazione ha sempre avuto un pudore nel far ridere, quasi vergogna”.
Era come se fosse un sintomo di poco impegno, c’è stata una sorta di autocensura; Carlo Mazzacurati era spiritosissimo, ironico come pochi altri, eppure fino alla fine degli anni 90, nei suoi film, si era impedito di far ridere; poi un giorno mi chiama, ci conosciamo, mi propone un copione (La lingua del santo) e mi spiega che intendeva cambiare. Che vedeva in me qualcosa di buffo.
Bentivoglio buffo…
Quel film rappresenta una sorta di liberazione reciproca, di agnizione; (resta zitto) sapevo anche prima di esserlo, però mi consideravano un attore drammaticissimo. Lui è stato il primo a dichiararlo e per me è stato fondamentale, altrimenti non avrei mai avuto altre occasioni, perché da lui in poi mi hanno offerto ruoli di commedia.
Su Mazzacurati c’è unanime gratitudine e amore.
Eravamo tutti innamorati di lui: non potevi non volergli bene, era un poeta. Ti colpivano la pacatezza dell’eloquio, l’acutezza delle riflessioni, il travolgente senso dell’umorismo, la dolce malinconia di certi suoi silenzi. Ci sono persone che sono poeti senza scrivere poesie: lui era uno di quelli.
È poetico il racconto di Volonté che torna sul set dopo l’operazione al polmone per un tumore.
Eravamo impegnati in La storia vera della signora delle camelie, quando scoprì di stare male. Lo operarono d’urgenza. Nel frattempo il film non poteva fermarsi e sembrava improbabile, se non impossibile, un suo ritorno. Così Bruno Ganz prese il suo ruolo. E invece tornò. Come se avesse avuto solo un raffreddore.
Ed era il 1980.
Gian Maria non era espansivo con tutti, ma con me aveva un piccolo rapporto. Così mi incaricarono di stare con lui durante i pasti e di controllare che mangiasse delle bistecche al sangue; eravamo vis a vis con queste enormi fiorentine che non amo particolarmente: la carne al sangue mi fa orrore; (il tono è di chi affonda dal profondo)…
A cosa pensa?
A una scena dopo il ritorno di Volonté; Gian Maria esce da una porta, si ferma, e recita: “Non credevo che un dolore fisico potesse fare tanto male”. Questa è la battuta. Forse nessuno ci aveva pensato prima, ma chiaramente quelle parole, pronunciate da lui dopo quello che aveva appena passato, assumevano significati che andavano oltre. Tutti sono rimasti immobili. Tutti. Dalle sarte ai macchinisti. A quel punto mi sono girato e ho visto Mauro Bolognini ed Ennio Guarnieri, in piedi sui cubi con l’occhio in macchina, che piangevano…
Vita e cinema.
Per fortuna andavo a vederlo anche quando non toccava a me.
Vedere per imparare.
Questo è un mestiere nel quale devi rubare ai migliori.
Rubare, non copiare.
Quello che rubi devi trasformalo e renderlo tuo.
I suoi tre figli recitano?
Grazie a dio, no; Federico (uno dei tre, ndr) sostiene che c’è troppo da imparare a memoria ed è un classico…
Cosa?
Gli esterni vengono sempre colpiti dalla memoria, ma è solo un aspetto.
“Sono un uomo di teatro”, ripete più volte.
Perché sono nato lì; quando ho iniziato non sapevo nulla del cinema, neanche degli agenti; una sera sono in scena al Quirino (a Roma) e arriva nel camerino Ferruccio Ferrara, grandissimo agente: bussa alla porta e mi chiede se poteva rappresentarmi. Io stupito vado da Lella Brignone per chiedere cosa mi stesse dicendo. E lei: “È una persona importante, è un bene”.
Con la scrittura del libro cosa ha scoperto di sé?
Forse una pulsione verso chi è più giovane, forse perché i figli ti portano a guardare a loro in maniera maggiormente comprensiva.
Arbasinianamente parlando ora è un “venerato maestro”.
Per alcuni sì. Eppure non ho mai fatto bottega. E questo libro nasce dal senso di colpa proprio per la bottega.
Perché?
Se mi chiedessero di insegnare ai ragazzi, non saprei da dove partire. Certe situazioni non si possono spiegare.
Magari oggi i ragazzi la guardano come lei ammirava Volonté.
Con simpatia.
Ha pudore.
Certe situazioni devono entrare da un orecchio e uscire dall’altro; è come il successo: se credi di averlo, hai chiuso.
L’attore ha una responsabilità?
Se possiamo, produciamo nutrimento per lo spirito.
Lei chi è?
Un uomo in viaggio, in movimento.