Specchio, 5 ottobre 2025
Intervista a Giulio Scarpati
Il tono pacato, il sorriso dolce ma misurato e quel sottile, ma palpabile, distacco che delimita il terreno di ogni suo incontro. Giulio Scarpati non è un uomo che si concede subito: una parte di lui tiene la guardia alta, trincerandosi dietro all’immagine – rassicurante e notoria – del Lele Martini di Medico in famiglia. Manda avanti lui, nelle conversazioni. Solo dopo, lascia andare anche «Giulio, il pazzo»: la sua parte più verace, quella che fa il paio con le origini nordiche. Esattamente come sua madre, napoletana con discendenza svizzero tedesca, Scarpati è un «ossimoro vivente» di distacco nordico e goliardia meridionale. Un «governativo», come lo chiamava suo papà, che fin da piccolo si batteva per la giustizia, ma che allo stesso tempo durante le vendemmie si intrufolava di soppiatto tra le botti per assaggiare il mosto dolce («si immagini come uscivo da lì»), o si metteva improvvisamente a cantare per strada. «È così che da piccolo mi sono guadagnato il soprannome di Giulio il pazzo», racconta l’attore, che l’anno prossimo farà il giro di boa dei 70 anni, «la recitazione ha un po’ canalizzato la mia esuberante energia, ma solo in parte: ancora adesso quel corrente lavico ribolle dentro di me». La pazzia, oggi, sta nel voler mischiare le carte – ancora e ancora – come se avesse 20 anni. O forse proprio perché non li ha più. «La lava inquieta che scorre in me mi spinge a scegliere progetti sempre diversi tra loro, che mi mettano alla prova», come Le stanze di Verdi, il suo primo docufilm da protagonista assoluto, nelle sale dal 6 ottobre. Qui, diretto da Pupi Avati, l’ex star di Medico in famiglia si cala nei panni dello «spettatore narratore» che ripercorre i luoghi che hanno segnato la vita di Verdi. Un ritratto fuori dall’ordinario, che non si ferma alla sua musica per svelare lati inediti come la passione del compositore per la terra o le opere di volontariato».
Scegliere alcuni progetti è una forma di militanza?
«Esatto: militanza, non ideologia. Ho avuto la fortuna di lavorare con un maestro come Ettore Scola i cui lavori raccontavano la vita, non degli slogan. L’aspetto ideologico non si risolveva mai in una battuta ma si declinava in un mondo di personaggi che faceva emergere un disagio, o un’urgenza sociale. Bisogna scandagliare la complessità del mondo, non semplificarla. Un esempio emblematico è Adolescence: una serie contemporanea, che non risolve tutto in una favoletta morale».
In cosa è rivoluzionario il suo Verdi?
«Riporta al centro l’attenzione per la persona umana, che oggi si sta perdendo. Non tutti forse sanno che Verdi ha dato vita a un ospedale d’eccellenza per i contadini, dotandolo delle strutture all’epoca più all’avanguardia. Il fatto che i pazienti fossero poveri non lo spingeva a puntare al risparmio. Questo sottolinea il valore della dignità umana, a prescindere dal ceto sociale. Inoltre il documentario denuncia lo stato di abbandono in cui versano i luoghi di Verdi: lasciati andare o chiusi al pubblico. Una follia. Purtroppo spesso i primi a fare le cose sono i furbi».
In che senso?
«Prenda il Pnrr. Si sono fatti tanti piani, ma pochi per la scuola e gli ospedali. Invece bisognerebbe partire da lì per migliorare l’assetto di un Paese. Anche la cultura è un pilastro fondamentale».
La sua sete di giustizia è cresciuta negli anni?
«Sono sempre stato più o meno indignato ma oggi a spronarmi è proprio il clima di impotenza che respiriamo. Davanti alle immagini delle persone ammassate sui carri a Gaza o in Ucraina, non si può restare indifferenti. Bisogna recuperare e rifondare l’attenzione verso il prossimo. Faccio quindi quello che posso, che magari è poco, ma è qualcosa. Per esempio, per alcuni anni ho presieduto il sindacato degli attori, battendomi per il rinnovo del contratto collettivo. Oggi sostengo la campagna dell’organizzazione umanitaria Intersos: preferisco impegnarmi per migliorare la condizione delle persone oggi, che non attendere di fare la rivoluzione mondiale chissà quando. Chi sta male, ha bisogno d’aiuto adesso. Per me il senso di giustizia è sempre stato legato a una conquista concreta e immediata».
Da piccolo si è mai messo nei guai?
«Ricordo che spesso i ragazzi più grandi ci cacciavano via dal campetto di calcio. Ogni volta ci discutevo, anche se erano molto più grossi di me. Non potevo ammettere quel sopruso. Un giorno vidi che lì vicino c’erano dei carabinieri a cavallo e mi ci fiondai: avevo un animo legalitario, oltre che protestatario. Alla fine non fecero nulla, dando ragione ai ragazzi più grandi, ma uno dei cavalli ci fece giustizia: defecò copiosamente proprio in mezzo al campo».
Com’era il rapporto con i suoi genitori?
«Mamma era un ossimoro vivente tra superstizione napoletana e razionalità svizzera. Era una donna molto forte, che aveva iniziato come insegnante d’inglese per poi impegnarsi per la comunità e il verde, arrivando a lavorare al ministero dell’ambiente. Era molto legata al nonno, un dentista tedesco che non conobbi mai, ma di cui porto il nome. Per onorarne la memoria, da piccolo giocavo a fare il “partigiano tedesco": era il mio modo per dirgli ti voglio bene. Mio papà sorrideva e mi chiamava “il governativo” perché a suo dire ero il fedele soldatino di mamma. Gli scontri con lei sono arrivati solo più tardi, verso i 23 anni, quando rivendicavo un rapporto più paritario».
Con suo padre invece?
«Era un uomo estremamente spiritoso tanto che ha fatto sbellicare dalle risate sia noi figli che i nipoti. Amava giocare con le parole e le… parolacce. Con lui le Tartarughe Ninja diventavano le Tartarughe Min***a. Cambiava anche tutte le filastrocche inglesi che ci insegnava mamma, infilandoci dentro delle scurrilità: il massimo per un bambino. Faceva l’avvocato e per un periodo l’ho anche aiutato con lo studio. Poi però ho preso la strada del teatro».
La svolta arriva con “Medico in famiglia”. Qualora si facesse una reunion, si unirebbe al cast?
«Devo tantissimo a Lele e sono felice che molti ancora mi ricordano per quel ruolo. Tuttavia era una serie figlia di quel tempo, che ormai è… passato. Una reunion rischia di essere più che altro un’operazione commerciale. Penso sia più urgente comprendere il presente, e dargli voce con un progetto nuovo, anziché rifugiarsi in un passato pur glorioso come quello di Medico».
Nella serie “Cuori 3”, interpreterà invece un sensitivo: qual è il suo rapporto con la spiritualità?
«Da ragazzo sono stato molto cattolico e impegnato negli scout, ma poi mi sono un po’ distaccato. Diciamo che credo che esista un imponderabile: c’è qualcosa sopra di noi. Dopodiché, con tutti i preti che ho interpretato (ho pure due beati in curriculum), mi faranno pure entrare in Paradiso».
L’anno prossimo compirà 70 anni. Rimorsi o rimpianti?
«Dal punto di vista lavorativo, no. È andata così bene che, come si dice a sette e mezzo, “sto”. Dal punto di vista personale, all’apice della carriera ho spesso sacrificato gli affetti: ero quasi sempre via, su un set o in tournée. Ecco, quello mi spiace… Il grande rimpianto è la laurea mancata. Me ne hanno data una honoris causa, ma non è la stessa cosa. All’inizio mi ero iscritto a Giurisprudenza, poi dopo una decina di esami (solo cinque superati) sono passato a Lettere e… da 40 anni mi manca solo la tesi. Ho cambiato soggetto una marea di volte: prima dovevo farla su Totò, poi su La notte prima della foresta di Hernàn Cortès… Solo che scrivevo tra una pausa e l’altra dei set e, puntualmente, perdevo il filo o avevo nuove idee. Mi sa che ormai sono fuori tempo massimo».