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 2025  ottobre 04 Sabato calendario

Enzo Iacchetti: «In paradiso mi aspetta Anna Marchesini, sono sempre stato innamorato perso di lei»

Le misure sono importanti. Nanni Moretti, già splendido quarantenne, quando si avvicinò al giro di boa dei quarantacinque cominciò a calcolare il tempo che gli restava da vivere usando un comunissimo metro metallico. Di questo metodo dava dimostrazione in una scena di Aprile: se aspiri a vivere ottant’anni e ne hai vissuti già quarantaquattro, ti restano 36 cm di nastro giallo. Enzo Iacchetti, che si definisce uno «splendido settantenne», ha trovato un’altra unità di misura, il «minuto seneco-pierangeliano». Me lo spiega così: «È un’idea che ho avuto guardando un programma di Piero Angela. Parlava di un libro di Seneca, La brevità della vita, che io avevo letto. Angela spiegava che prima di nascere noi siamo stati morti per milioni di anni, e quando moriremo saremo morti per altri milioni di anni. Quindi la nostra vita dura mezz’ora. Allora ho fatto una proporzione: la vita media è di 85 anni (l’ho alzata un pochino); 85 anni stanno a 30 minuti come i miei 72 stanno a X. Ed è venuto fuori che ho vissuto 25 minuti e me ne mancano cinque». Da questo calcolo nasce il titolo della sua autobiografia, 25 minuti di felicità, in uscita l’8 ottobre per Bompiani. Ne parliamo in un caffè fiorentino per una cinquantina di minuti, dunque per circa 142 anni. Ma è evidente che nessuno dei due ha il senso delle misure, quanto meno in materia alimentare, considerato che passiamo dal «grazie, non prendo nulla» a due abbondanti piatti di tagliolini, con in mezzo una dozzina di antipasti.
«Questa è stata l’idea del titolo. Poi naturalmente, siccome i comici sono drammaticamente tristi, ho aggiunto il sottotitolo Senza mai perdere la malinconia. Perché la malinconia ha accompagnato tutta la mia carriera. La malinconia che mi prendeva ogni volta che una cosa non andava bene. La mattina dopo però mi veniva una rabbia pazzesca, e la riprendevo finché non mi riusciva». «Come un maratoneta», gli dico, e dopo un attimo capisco perché: con quella felpa a cappuccio aperta sul davanti, Iacchetti è tale e quale a Dustin Hoffman nel Maratoneta. A quanto pare non sono il primo a farglielo notare. «È un buon paragone perché anche il maratoneta rallenta e fa delle soste per pensarci su o per bere un po’ d’acqua. Io non ho cercato subito il successo. Il successo mi è capitato perché, vabbé, ero bravo, ma soprattutto perché Maurizio Costanzo ha capito la mia determinazione. Mi ha messo in un albergo e mi ha detto: voglio che vieni da me tutte le sere, quindi adesso stai chiuso qua perché stasera voglio sentirti dire settanta puttanate».
Settanta sono tante, e allora bisogna fare puttanatine molto piccole. E Iacchetti sa farsi piccolo – perfino il suo cognome ama abbreviarlo in «Iac». Sulla brevitas del comico ha anche una sua teoria, e io penso che dovrebbe dedicare almeno uno dei cinque minuti residui a ricavarne un trattatello senechiano: se fai un pezzo comico corto, mi spiega, quelli a cui è piaciuto resteranno con l’acquolina in bocca e ne vorranno di più, gli altri si consoleranno perché non li hai disturbati troppo a lungo. Nascono così le sue famose poesie bonsai, che poi evolveranno in canzoni bonsai. Alcune di esse nel 1992 finiranno in un libro, Il pensiero bonsai, e mannaggia a me che ho dimenticato di portarmelo dietro per strappargli una dedica. Quelle poesie minuscole, appena più lunghe di un haiku, le può apprezzare anche chi non conosce il contesto per cui nacquero, ossia gli intermezzi e i tempi morti del Costanzo Show
Gli epigrammi stralunati di Iacchetti sono quanto meno vicini di pianerottolo di quelli di Gino Patroni, l’autore dell’immortale Ed è subito pera. Riporto uno dei miei preferiti, Oh Mucca, che può fare da complemento al pio bove carducciano: «Sonante il batacchio pesante | pungente il fastidio | della pioggia battente | batacchio e pioggia | pioggia e batacchio | oh mucca | che vita del cacchio».
Il primo provino per il Costanzo Show andò male, ma poi entrò in ballo un’altra unità di misura, il «fattore C», volgarmente detto... ma no, non diciamolo: «Diciamo la fortuna. Pensavo che fosse tutto finito perché mi avevano bocciato. Ma ero convinto che a Costanzo le mie cose sarebbero piaciute, e mi seccava andar via con una carta vincente in mano e aver perso la partita. Allora, uscito dal provino, in un gesto di rabbia ho buttato i miei foglietti a terra. Per fortuna è passata di lì una redattrice che li ha raccolti e mi ha telefonato». Ci sono persone che sarebbero diventate religiose per molto meno. «Io no, ma ho comunque ringraziato».
L’autobiografia di Iacchetti serba ancora traccia del pensiero bonsai, e dentro ci si possono trovare romanzi in miniatura, come questo sul primo bacio, a quattordici anni, con una ragazzina di nome Cinzia: «Un giorno che nevicava, stretti sotto un portico, ci baciavamo e i fiocchi cadevano grandi. Un bacio senza lingua. Perché io pensavo: Se metto la lingua mi scambierà per uno che ne ha baciate tante. Lei pensava: Se metto la lingua penserà che sono una poco di buono. Così siamo rimasti appiccicati alle labbra con la bocca aperta per un quarto d’ora. Ma la neve scendeva e noi pensavamo di amarci all’infinito».
Non è, però, un libro di aneddoti, guizzi e battute, e Iacchetti ci tiene a metterlo in chiaro: «Ho voluto raccontare la mia storia. È anche una storia difficile, di emigrazione, di difficoltà familiari, di un papà con cui ero sempre in contrasto, morto quando io avevo 22 anni e lui 57. Mio padre non voleva neanche vedere la chitarra in casa, quindi me la nascondeva; allora mia madre me la ripassava da fuori la finestra. Adesso forse sarebbe abbastanza orgoglioso di me». E in effetti, per quanto si possa pensare, guccinianamente, che «un laureato vale più di un cantante», è difficile disprezzare una carriera che dalle serate al Derby di Milano passa per il Maurizio Costanzo Show e prosegue con decenni di Striscia la notizia al fianco di Ezio Greggio, senza contare il teatro.
Una maratona tutto sommato felice, ma questo non vuol dire che i momenti euforici siano stati poi molti: «Non credo che la felicità ci sia tutto il giorno. Io credo di più negli attimi di felicità». E queste trascurabili felicità bonsai fanno da intermezzo tra un capitolo e l’altro. «Per esempio, quando vedi una ragazza che ti sorride, e tu dici boh, sta parlando al telefono, poi ti giri e ti accorgi che sta sorridendo proprio a te. Beh, è bello». E qui mi improvviso psicoanalista. La mitologia personale di Iacchetti comincia con un rifiuto: i suoi genitori volevano una bambina, e non hanno fatto nulla per nasconderglielo. Da qui, suppongo, nasce il suo continuo sentirsi fuori posto, il volersi fare piccolo e invisibile, il ritenere inverosimile che la ragazza per strada stesse guardando proprio lui. «Sì, gli psicologi direbbero così, ma io non credo. Siccome sono nato con tanti capelli, ero bruttino. Mia mamma quando mi hanno portato da lei ha detto no, questo non lo voglio, e mi hanno messo ai piedi del letto. Ero il mostriciattolo di casa. Poi però hanno cominciato a volermi bene, anche perché me ne restavo buono ovunque mi mettessero. È tuttora così: sono timido, sono un musone meteoropatico».
Timido, sì, ma con quali scatti d’ira, come si è visto nel dibattito su Gaza a Cartabianca diventato virale nelle scorse settimane! E quanto all’umoralità, Iacchetti pensa che abbia qualcosa a che fare con l’esser cresciuto sul Lago Maggiore. È una teoria ingegnosa, come quella di Cochi e Renato sulla nebbia in Val Padana che «incasina la mentalità». Sul mare si possono far planare i pensieri, come se rincorressero un punto di fuga immaginario, «quindi tu ti svuoti la mente e vai a casa più sereno». Naufragare è dolce, anche se non tutti sono Leopardi («Tutti siamo stati seduti dietro una siepe almeno una volta nella vita ma solo uno ha scritto L’infinito»: questa Iacchetti l’ha sentita dire a un pescatore che giocava a tressette, e tante poesie bonsai sono nate da ispirazioni così). «Al lago, siccome vedi l’acqua, il pensiero parte... poi trova la montagna dopo un chilometro e rimbalza indietro. Così i lacustri vivono la loro tenera follia».
Non tutti sono Leopardi, è vero, ma nel libro si racconta di un uomo del lago che pescava «lucci teoricamente infiniti», che è la perfetta unità di misura dei sogni e delle ambizioni. «Quando ero bambino c’era questo pescatore di nome Pietro che nella seconda guerra mondiale aveva perso un braccio. Aveva imparato a fare tutto con la mano destra. Poi alla sera arrivava al bar e diceva “ho preso un luccio lungo così”, facendo il gesto. Naturalmente non c’era l’altra mano, per cui poteva essere un luccio di tre metri o di tre centimetri. E noi gli dicevamo: che bella bestia, Pietro!».
Anche i lacustri possono dunque pensare a interminati spazi. Iacchetti per esempio è incuriosito dall’idea di altre forme di vita nelle galassie, e vuole comprarsi un telescopio. Nei cieli ha anche una sua trinità privata, composta da Giorgio Gaber, Maurizio Costanzo e, al centro, suo padre Antonio. 
E il paradiso? «Lo immagino come un portico di una casa di campagna sotto cui sono riuniti tutti i miei amici. E in fondo mi aspetta Anna Marchesini». Anna Marchesini? «Sì, sono sempre stato innamorato perso di lei ma non l’ho mai conosciuta, solo qualche ora in un viaggio Roma-Milano che facemmo per una trasmissione su RaiTre». Un amore bonsai, insomma. «Secondo me era perfetta. Era strabiliante in tutto ciò che diceva e faceva, ed era bellissima. Rispetto a lei ero come il Florentino Ariza dell’Amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez, che rimane innamorato di Fermina per “cinquantatré anni, sette mesi e ventitré giorni“avendo scambiato con lei solo delle lettere. Io e Anna siamo stati così. Nel mio aldilà, sotto il portico le chiedo di sposarmi. E lei mi risponde: sì, fra cinquantatré anni, sette mesi e ventitré giorni».