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 2025  ottobre 05 Domenica calendario

Intervista a Paolo Conte

Un pomeriggio color avorio, di fine settembre. Sul campanello in ottone una scritta: «Avv. Paolo Conte». Un corridoio spartano, poi uno studio d’altri tempi, una luce bassa e sedie alte, imbottite. Tutto pare venire da un altrove, o, meglio, da un «ailleurs» come dicono i francesi. 
Questo è il suo storico studio legale? 
«Sì, lo studio della mia vita precedente, quella di avvocato». 
Alcune sue canzoni sono nate qui? 
«Difficile dirlo. Qualcuna nasce da una musica improvvisa, qualcun’altra da una rima, altre ancora da uno sguardo alla finestra, quando noti una scena di varia umanità». 
Curioso che le canzoni più colorate della musica italiana siano nate in uno studio di Asti, città «con la pioggia che ci bagna». 
«No, anzi. Sono nate qui proprio perché noi i colori ce li dovevamo immaginare. Come ci dovevamo immaginare il mare, il sole, le voci allegre e la parlantina sciolta di Genova». 

«Genova per noi», ovviamente, è una canzone su Asti. 
«Ma certo. È lo sguardo verso un mondo che a noi pareva lontanissimo, anche se geograficamente vicino». 

Azzurro, la Topolino amaranto, la verde Milonga. Un musicista dei colori come lei non poteva non essere anche pittore. 
«Quando qualcuno mi chiama “artista” o “pittore”, lo sa che faccio? Quello che ho fatto per un’intera vita nelle canzoni: parlo d’altro». 
Di macachi e Timbuctù. 
«È una forma di pudore, parlare del presente non mi si addice». 
Come nascono espressioni come «calma tigrata», «il suo sguardo è una veranda»? 
«Dalla poesia. Ho cominciato con la lirica greca: una volta da ragazzo su una rivista femminile dimenticata da mia madre lessi una poesia di Seferis. Poi arrivò Kavafis, quindi mi spostai su Campana, Sbarbaro e Montale. Sono stato e sono un divoratore di versi» 
Matite, pennelli, acquerelli. Il Paolo Conte pittore è sfuggente come il cantautore. 
«È più comodo, è più elegante. Ma tengo anche agli aforismi che accompagnano le mie mostre, oltre che ai titoli delle opere». 
Asti ora gliene dedica una, gigantesca, a Palazzo Mazzetti: «Paolo Conte Original», oltre centoquaranta opere – tutte su carta – che coprono settant’anni d’arte. 
«Ci sono anche i primi disegni. Era il 1957, avevo vent’anni e volevo fare il medico». 
Però, al tempo stesso, disegnava e ascoltava i dischi jazz. 
«Ce li portavano gli americani. Mia madre era una brava pianista, ma la mia era una famiglia di uomini di legge. Mio fratello Giorgio si iscrisse a Medicina a Torino, però svenne alla prima autopsia. Io facevo Giurisprudenza». 
Durante le lezioni disegnava? 
«No, componevo musica sul pentagramma. La prima l’ho scritta durante una lezione di Diritto romano. Sono un autodidatta». 
Primo strumento? 
«Un trombone. Ne amavo il ruggito». 
E poi? 
«Comprai un vibrafono, anzi me lo comprò un amico, fece delle cambiali che io poi rimborsavo. Fu con quello che carpii il primo vero grande applauso. Ricordo bene: un club torinese, gente che se ne intendeva». 
I titoli dei disegni: «Sagome di mannequins che ancheggiano», per esempio.
«“Ancheggiano, si sporgono e poi sbandano. Come consuetudine. E beatitudine”». 
Questa è «Aguaplano». 
«Forse la mia pittura è una dilatazione delle mie canzoni. In ogni caso, prima viene la musica. Un’ispirazione iniziale in bianco e nero dove poi costruisco la scala cromatica». 
Ogni nota ha un colore? 
«Sì, il do è bianco sporco, il re bemolle è nero, il fa è rosso, il mi bemolle è azzurro, il re naturale è marron». 
«Marron» come il tinello di quello che aveva il Mocambo? 
«Sì. Nella saga del Mocambo avevo in mente una figura umana ben precisa, l’uomo del secondo Dopoguerra che fa sogni più grandi delle sue possibilità. E che quasi sempre fallisce, nella derisione generale». 
Dopo la guerra si sognava in grande? 
«Forse troppo. C’era l’euforia del ritorno alla vita, della ricostruzione. Se avessi potuto scegliere un attore per interpretarlo in un film, avrei scelto un felliniano minore, Franco Fabrizi, per esempio. Nella canzone c’è anche il curatore fallimentare che, bonariamente, offre un caffè a quel povero cristo. Nella mia carriera di avvocato mi sono occupato anche di fallimenti: sapesse quanti caffè ho offerto». 
Un ricordo della guerra. 
«L’odore». 
Com’era? 
«Bianco sporco». 
Le bombe. 
«Ricordo di più la fine della guerra. Un mattino mia madre ci svegliò alle sei. Ci fece affacciare alla finestra: sfilavano i soldati in ritirata, mesti e dall’aspetto innocuo. “Bei ragazzi”, disse. E chiuse le imposte». 
La guerra torna anche nella sua bellissima «Nottegiorno». 
«Fu incredibile. Dopo settimane di oscuramento, dopo intere notti a luci spente, una sera vidi le case illuminate. Fu come se le vedessi per la prima volta». 
Sfrecciando sulla Topolino Amaranto, un tipo porta a spasso una bionda tra le macerie di un’Italia ferita dalla guerra. 
«Non è un andare “altrove” anche quello? Che non è una fuga, perché c’è sempre un colore di malinconia, ma è l’ailleurs dei francesi. Un’altra dimensione, quella dell’arte». 
Nel suo ormai storico concerto alla Scala, il teatro è esploso quando, nel bis, lei ha fatto «Il maestro». A chi è ispirata? 
«In generale, mi affascinano le figure dei grandi come Verdi o von Karajan. Ma in quel brano pensavo ad Arturo Benedetti Michelangeli, maestro che per un periodo lasciò l’Italia, credo per polemica contro alcune scelte governative, e quando i discepoli andavano a trovarlo lui spesso ha rifiutato di incontrarli». 
Nei suoi dipinti vedremo tante brune. Ma nelle canzoni ci sono le bionde: la spudorata di «Avanti bionda», la donna della Topolino. 
«La bionda è la donna delle canzoni dei soldati, quella dei complimenti che un tempo si facevano per strada, la “bionda” è una metafora, forse una condizione dell’anima». 
Perché «le donne odiavano il jazz»? 
«Perché c’è stato un tempo, ormai per fortuna trascorso, in cui le donne venivano tenute lontane dalla musica jazz e così non lo capivano, anzi, come dice la canzone con un rimando all’enigmistica, “non si capisce il motivo”. Il jazz era come Hemingway e Bartali: un invito a smontare l’involucro per capire i meccanismi nascosti, una cosa da maschi». 
Anche in «Pittori della domenica» c’è solidarietà maschile, quella passione insensata che alcune mogli non capiscono. 
«È una canzone che guarda, senza giudicare, gli appassionati di qualcosa. Quelli che tutti invitano a lasciar perdere, senza sapere che queste parole li fanno soffrire. Sono dei bambinoni e, infatti, “a capirli è solo la mamma”».
Chi è lo «sparring partner» della canzone? 
«Il simbolo della rivalità, altra dinamica maschile. E quando un uomo più anziano ma esperto incontra uno più giovane, meno allenato ma spavaldo, non so chi dei due finirà per soccombere, ma un’idea ce l’ho». 
Il ciclismo ruvido di Bartali meglio di quello, più sofisticato, di Coppi? 
«Tutti e due erano ragazzi “nostri”, di campagna. Ma Bartali era più carnale». 
Pavese o Fenoglio? 
«Ho sempre risposto Pavese, perché quello che ha scritto, e ha scritto tanto, mi piace di più. Anche se Un giorno di fuoco di Fenoglio è un capolavoro. Però negli anni ho affinato una affettuosa critica verso Pavese: una volta diventato “cittadino” e torinese è tornato qui da noi, in provincia, a cercare la sua mitologia. Ma come?, mi viene da dire: la nostra mitologia campestre la conosciamo solo noi». 
Hemingway. 
«C’è stato un periodo, forse da giovane, in cui ero convinto di ispirarmi a Francis Scott Fitzgerald. Poi no, poi ho capito che quello che mi piaceva davvero era Hemingway. Più terra-terra, meno vanitoso, più scabro». 
Quasi un astigiano? 
«Giusto. Noi qui della provincia piemontese tagliamo tutto con l’accetta. Intanto, c’è pochissima poesia: quelli che ci hanno provato poi hanno finito per scrivere tragedie». 
Vittorio Alfieri? 
«E anche Federigo della Valle. Poche cose poetiche, poche cose gentili. Però se lei ora si sta chiedendo perché canzoni come quelle su Zanzibar o Timbuctù sono nate in una città grigia e piovosa come questa, faccia pure le sue ipotesi ma non parli di esotismo». 
Forse perché la provincia è una specie di lente d’ingrandimento umana. 
«Sì, è qui che risaltano le figure più autentiche, come il curatore fallimentare, la donna di costumi allegri, l’imprenditore che fa sogni troppo grandi. È qui che nasce un linguaggio più largo di una lingua». 
È per questo che milioni di francesi cantano le sue canzoni? 
«Ma non capiscono mezza parola!». 
Cioè? 
«Secondo me non capiscono le parole, ma afferrano il senso profondo. Una volta France 2 mi chiese un brano per accompagnare un filmato pieno di dolore e vollero “Come Di”, cioè quella che riprende la parola “comédie”. Io, sbigottito, chiesi perché proprio quella e loro mi risposero centrando in pieno il cuore della canzone: “Perché parla degli addii”». 


L’addio più doloroso della sua vita? 
«Mia madre. Ma non faccio classifiche». 

Forse perché sua madre una volta ha pianto ascoltando le sue canzoni? 
«Per motivi miei». 

Cinquant’anni fa ha sposato Egle Lazzarino. 
«Era la mia segretaria. Un grande amore». 
«Gelato al limon» è dedicata a lei. 
«Ma stavamo già insieme». 

In mostra pure il corpus di disegni di «Razmataz», che molti conoscono solo come album ma che è un musical nato in dvd. 
«Sì, ma sbagliammo epoca. Uscì quando pochi avevano in casa il lettore dvd e così sul piano commerciale non funzionò. Allora si puntò sul disco, ma fu peggio perché quell’opera racconta l’incontro della vecchia Europa con la giovane musica nera, una cavalcata nel Novecento che parla inglese, francese, italiano. Insomma, non ci capì niente nessuno». 
Una canzone nella quale lei ha composto musica e parole contemporaneamente. 
«Una sola: “Genova per noi”». 
La voce femminile più bella. 
«Ne dico tre: Vanoni, Caselli, Pravo». 
Mina? 
«Anche». 
Ornella Vanoni. 
«Per anni è venuta in visita a casa nostra, un’amica. Un giorno sparì nel salotto con mia madre. Più tardi scoprii che Ornella era riuscita a carpirle parecchie confidenze». 
Patty Pravo. 
«Un’artista completa». 
Il cantautore italiano più bravo? 
«Enzo Jannacci. Un grande amico. Una volta, mentre incideva “Messico e nuvole” in studio, si buttò a terra e la volle fare per intero così, disteso sul pavimento, a pancia in su». 
Un «vieni via con me» in pittura? 
«El Greco, il pittore del Cinquecento a cui ho dedicato una canzone. Nasce a Creta, arriva a Venezia, poi va in Spagna. Da ciascuna terra ha preso qualcosa e io sono convinto che tanta musica mediterranea abbia un debito con l’Est Europa». 
«Azzurro» è forse la sua canzone che ha viaggiato di più: solo se pensiamo a tutte le volte che l’abbiamo cantata in gita. 
«Celentano. Un amico e un grande artista che non ha paura delle bizzarrie».
Aneddoto, aneddoto. 
«Una volta mi invitò nella sua villa nel verde tra Como e Milano, dove ormai risiede stabilmente. Un posto incredibile, fantasioso, con riproduzioni di rovine. Ha anche ridipinto delle pietre, ma non a colori, le ha ridipinte da...pietre. Comunque, volle farmi vedere tutto e facemmo chilometri a piedi, ero stanchissimo, lui per niente. Mi distrusse! Alla fine cominciammo a parlare di religione». 
Una delle ossessioni di Adriano. 
«Era da poco morto mio padre, io ero restio a discutere di massimi sistemi, mi veniva da piangere. Poi però lui se ne uscì con una metafora che non dimenticherò mai. Mi disse che secondo lui il paradiso è “un cavallo bianco che non suda mai”». 
Lei sa, vero, qual è la prossima domanda? 
«Che cosa è per me il paradiso?» 
Sarà quella successiva. Voglio prima chiederle se secondo lei, che ha attraversato quasi novant’anni, oggi diamo per scontati dei concetti come «pace» e «democrazia». 
«Domanda difficile». 
È rivolta all’artista, non all’uomo. 
«Parliamo tanto di pace, ma sappiamo che cosa è la pace? L’abbiamo mai vissuta davvero?» 
Ora il paradiso. Come se lo immagina? 
«Preferisco dire l’aldilà. Che cosa posso rispondere? A mano a mano che invecchio non so se nell’aldilà davvero avrò voglia di fare chissà che cosa. Speriamo che almeno sia un posto tranquillo». 
Che cosa è Dio per lei? 
«Qualche volta c’è, qualche volta no». 
Che cosa la fa soffrire? 
«Il pensiero di perdere la salute». 
E che cosa le dà più gioia? 
«Una cosa che voglio spiegare bene: ogni tanto assaporo brevi momenti di serenità. Sono leggeri, vanno via presto, ma a volte riesco a prenderli. A riconoscerli. E allora, sì, qualche volta sono felice».