Avvenire, 3 ottobre 2025
Nagorno-Karabakh, la ferita resta aperta «Bisogna favorire il ritorno degli sfollati»
L’ultima guerra è durata un giorno. Ma la pace non è ancora scontata a oltre due anni dal 21 settembre 2023, quando l’Azerbaijan prese armi in pugno l’enclave armena del Nagorno-Karabakh, sfollando oltre 120mila persone, tutti cristiani armeni. Per quasi dieci mesi le “forze di pace” russe avevano retto il gioco di Baku, impedendo il passaggio di aiuti umanitari lungo il corridoio di Lachin, l’unica via percorribile dal confine armeno alle alture del Nagorno. Poi il 20 settembre, i soldati russi si voltarono dall’altra parte mentre le truppe azere irrompevano nei villaggi.
Ma il conflitto pluridecennale è anche noto per essere una delle sette guerre che non farà vincere il Nobel per la Pace a Donald Trump, e non solo perché il tycoon ha confuso l’Armenia con l’Albania. Il capo della Casa Bianca ha infatti mediato un accordo storico tra Armenia e Azerbaigian, ospitando l’8 agosto i leader dei due Paesi a Washington, per porre fine alla guerra trentennale per la regione contesa. Ma Erevan e Baku non erano più in conflitto aperto da un anno. La sorte degli sfollati resta un interrogativo. L’Armenia, sempre più vicina all’Europa di Bruxelles, non potrà farsene carico a lungo e tanti vorrebbero tornare nelle loro case. Non sarà facile che si trovi un accordo per il loro rientro. Molti dei profughi hanno notizie di distruzione di cimiteri e chiese da parte degli azeri che hanno occupato le loro case e si sono insediati nei villaggi. Anch’essi, a loro volta, erano stati allontanati dalla regione nel corso dei precedenti scontri armati. «Oggi, la regione rimane quasi interamente spopolata, ad eccezione di alcune aree in cui il governo azero ha reinsediato gli azeri», scrive il “Nagorno-Karabakh Observer” che monitora l’area attraverso scarne fonti locali, mentre proprio in questi giorni alcuni gruppi di attivisti stanno esaminando immagini satellitari ottenute attraverso canali commerciali. Una spinta arriva dalla Svizzera. Il 26 maggio 2025 è stato fondato a Berna il comitato interpartitico “Iniziativa di pace svizzera per il Nagorno-Karabakh”. I membri del comitato sostengono il Consiglio federale, l’organo esecutivo della confederazione elvetica, nei suoi sforzi di pace. Si impegnano per una soluzione politica sostenibile al conflitto tra l’Azerbaigian e la popolazione armena sfollata del Nagorno-Karabakh. Nel Parlamento elvetico è in discussione la proposta per un forum internazionale sulla pace nel Nagorno-Karabakh, nell’intento di negoziare il ritorno collettivo, e in tutta sicurezza, della popolazione armena. Nei giorni scorsi la Conferenza episcopale svizzera ha scritto al Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa affinché l’episcopato del Vecchio continente sensibilizzi le comunità e la politica a non lasciar sfuggire l’occasione per una pace durevole che non si chiuda con la definitiva espulsione dei cristiani dalla regione caucasica dove vivevano da secoli.
Ma anche nella capitale armena c’è chi spinge perché il passato venga rimosso in fretta. Nei giorni scorsi il presidente del Parlamento armeno, Alen Simonian, è stato accusato dalla diaspora del Nagorno di avere impedito a un altro parlamentare della maggioranza di pubblicare i risultati di un’inchiesta parlamentare sulla guerra del 2020. Il Parlamento armeno, controllato dal partito al potere “Contratto Civile”, ha istituito nel febbraio 2022 una commissione incaricata di esaminare le cause della sconfitta dell’Armenia nella guerra, valutare le azioni del governo e dell’esercito armeno e verificare le misure adottate per la difesa nazionale prima delle ostilità.