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 2025  ottobre 03 Venerdì calendario

Intervista a Paolo Rossi

Con un gusto dell’ossimoro tutto suo, si definisce «un giacobino non violento oppure un francescano incazzoso». Fa teatro ovunque gli capiti, che sia un’ex casa del popolo o un cortile, la sede di un’associazione, una parrocchia o un club, basta che ci sia un palco e a volte anche senza. Da un anno e mezzo a questa parte vive in albergo, perché è in perenne tournée e nella sua casa di Trieste ci torna malvolentieri. Figlio di un padre fascista «ma tollerante», Paolo Rossi è nato e cresciuto artisticamente a lezione da Fo, Jannacci, Gaber, e si definisce «un attore clandestino» che mischia il teatro con la vita, tenendosi alla larga dal mainstream e dai palcoscenici troppo istituzionali.
Settantadue anni, ha tre figli da tre compagne diverse e un presente sentimentale da «uomo libero di avere relazioni o di non averne, anche perché non voglio mettere nei guai nessuno: sono sposato col teatro». Suo nonno, l’unico uomo di spettacolo in famiglia, in tenera età cercò di dissuaderlo dall’imboccare la via del palcoscenico: «Da ragazzino ero timido e maldestro, non sapevo fare niente secondo le regole e così me le inventavo io. A 14 anni feci una specie di provino con mio nonno attore: recitai una poesia e lui dopo avermi sentito mi disse: “il tuo futuro è la chimica”, allora mi sono iscritto all’istituto tecnico e sono diventato perito chimico».
Come ha capito che voleva fare il teatrante?
«Ero in metropolitana a Milano e ho avuto una sorta di palpitazione: ho capito che quella era la mia strada. Avevo sui vent’anni, frequentavo corsi di mimo e recitazione ma non l’accademia, perché ho lavorato quasi subito in trincea e i miei comandanti erano Fo, Jannacci, Strehler, Cecchi, Gaber. Soprattutto Enzo (Jannacci, ndr) mi insegnava come vivere di creatività e fantasia. Il suo motto era “meglio un fiasco colossale che un successo sobrio"».
Suo padre era fascista, che rapporti c’erano fra voi?
«Quando cominciò la guerra si arruolò volontario nell’esercito nel battaglione Benito Mussolini, tornò a casa nel 1948 dopo due anni e mezzo in un campo di concentramento. In casa però era tollerante, aperto e ospitale. È stato anche segretario del Movimento sociale italiano di Monfalcone, ma l’unico schiaffo che mi ha dato è stato a 13 anni, quando gli dissi che volevo entrare nel Fronte della gioventù (l’organizzazione giovanile del Msi, ndr): voleva che facessi certe scelte con maggiore maturità. Non ha mai tradito le sue idee ma il suo comportamento non aveva nulla a che fare con l’olio di ricino».
Lei invece di lì a qualche anno entrò in Lotta continua.
«E mio padre quando entrai nel movimento non ebbe niente da dire. A Milano ero nel circolo Ottobre, facevo già l’attore e durante un’assemblea presi la parola, dicendo che noi, che facevamo teatro fra le case occupate e davanti alle fabbriche, dovevamo comunque studiare recitazione per comunicare meglio con il pubblico. Mi accusarono di tendenze borghesi, così me ne andai al Derby, dove mi hanno accolto dicendomi “telchì il comunista”... Ero in una terra di nessuno, come ora: espulso da una parte, ero uno straniero anche nell’altra. Ci ho fatto una serata di recente, al vecchio Derby: anche se ha chiuso da un pezzo è tenuto in vita da un centro sociale, il Cantiere».
Che scuola è stata il Derby?
«A me ha cambiato la vita, soprattutto per il consiglio di un gangster che lo frequentava: avevo paura a salire sul palco e lui mi disse che dovevo entrare in scena come se dovessi fare una rapina, che non dovevo preoccuparmi di come dire “mani in alto”, di dirlo e basta senza aspettarmi gli applausi, perché quelli arrivano quando hai finito. Quella gavetta mi è servita moltissimo».
Lei ha collaborato molto con Jannacci, un ricordo in particolare?
«Abbiamo fatto cene e spettacoli in ambienti di sinistra, a un certo punto lui diceva: andiamo via, qui c’è troppa mancanza di ignoranza, voleva dire che c’era poca vocazione ad ascoltare gli ultimi. Per restare di sinistra coerentemente, dobbiamo guardare a chi sta in alto e chi in basso, a chi ha potere e chi no. Una volta abbiamo fatto uno spettacolo in un teatro che stava per essere venduto per farci un centro commerciale. Prima di andare in cena ci hanno minacciato di non attaccare i proprietari, allora lui mi disse di fare una magia, di evocare gli spiriti di tutti gli attori che avevano lavorato lì. Risposi che non ero un mago e lui, citando Orson Welles: “Un mago è un attore che fa un mago”. Il giorno dopo hanno arrestato il proprietario che voleva vendere il teatro».
Come si concilia la sua vita sentimentale col suo mestiere?
«Ho avuto tre mogli e ho fatto tre figli,
ognuno da una compagna diversa, tutti e tre lavorano in campo artistico: Davide nel “Terzo segreto di satira”, Georgia scrive romanzi e Shoan suona rhythm’n’blues. Nessuno di loro ha fatto il commediante. Quanto a me, da un anno e mezzo vivo in albergo, l’unico posto in cui mi abbiano detto bentornato a casa: mi è venuto un groppo in gola... Attualmente sono sposato con il teatro. Porto in tournée il mio spettacolo Operaccia satirica, in cui mi faccio psicanalizzare da Caterina Gabanella in quanto comico disorientato dalla guerra, da tutto».
Ce l’avrà una casa vera.
«Sì, a Trieste, dove però non vado più perché teatralmente ho un brutto rapporto con la città, ma non con il pubblico eh? Con le istituzioni teatrali. Disturbavo, alteravo gli equilibri di potere, e allora non ci torno più. La mia lontananza da casa coincide con questa mia tournée infinita per cui sono sempre in albergo, like a rolling stone, no direction home, come canta Bob Dylan, ma senza lamentarmi, in maniera allegra, perché è questa la vita che volevo: sono l’ultimo dei superstiti e il primo dei prossimi bohémiens».
Si è anche candidato alle ultime europee con la lista di Michele Santoro, davvero si vedeva come parlamentare a Strasburgo?
«Ma no, lo facevo solo per rompere le scatole ai partiti di sinistra, perché candidassero persone che tenevano veramente al tema della pace, mica volevo andare in parlamento davvero. Ho rapporti sia con gente di sinistra che di destra, ma i problemi veri ce li ho con le persone di potere, a qualsiasi schieramento appartengano. Nei miei dormiveglia mi viene in mente la canzone di Gaber e allora penso, ma non è che magari destra e sinistra non esistono?».