Avvenire, 2 ottobre 2025
Più flessibilità ma paga ridotta? Il 70% degli europei è contrario
Rinunciare ad una parte dello stipendio in cambio della possibilità di lavorare da remoto? No, grazie. Per i dipendenti europei si tratta di un’opzione poco vantaggiosa. Appena il 21% dei lavoratori la prenderebbe in considerazione, indicando percentuali di decurtazione assai basse. Un’analisi condotta dagli economisti della Bce Antonio Dias da Silva e Marco Weisser prova ad indagare il “valore economico” delle flessibilità, alla luce della crescente diffusione del lavoro agile e smentisce altri studi secondo i quali i lavoratori sarebbero disposti a rinunciare a una parte più consistente del proprio reddito. Il punto di partenza è l’indagine sulle aspettative dei consumatori (Consumer Expectations survey Ces) che evidenzia il radicamente del lavoro da casa: il 33,6% del campione dichiara di farlo almeno due giorni a settimana (il dato Eurostat però è più basso, 22,4%, differenza legata al diverso campione). Le aziende spesso offrono benefit non salariali, compresa la possibilità di lavorare da remoto, come alternativa ad aumenti delle retribuzioni. Ma quando si tratta di fare il percorso inverso le cose cambiano. A maggio 2025 è stato chiesto ai partecipanti all’indagine Ces come reagirebbero nel caso di una soppressione del lavoro da casa e di indicare il livello di riduzione salariare che sarebbero disposti ad accettare per “riavere” indietro due o tre giornate a settimana. Le risposte sono state piuttosto nette. Il 70% degli intervistati non accetterebbe nessuna riduzione, il 13% sarebbe disposto a rinunciare ad una percentuale tra l’1 e il 5% dello stipendio, un altro 8% ad una decurtazione tra il 6 e il 10%. I più propensi ad accettare sono i dipendenti che oggi hanno maggiore flessibilità, i giovani e i genitori, oltre ai pendolari. Reddito, istruzione e genere invece non influenzano le risposte.
Il dato europeo (che spalmato su tutti i lavoratori è appena del 2,6% di decurtazione sopportabile) si discosta in maniera significativa da quelli registrati negli Usa e in Germania dove in media si viaggia sul 7% con picchi del 25% negli States nel caso di un lavoro totalmente da remoto, che comporta la libertà di vivere anche molto distante dal luogo di lavoro. Alla fine della pandemia alcune big tech come Google avevano introdotto dei tagli di stipendio modulari (in base alla distanza e quindi al risparmio per il lavoratore) ma poi sono tornate sui loro passi. In Italia spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio sullo smartworking del Politecnico di Milano, la legge 2017 prevede che la retribuzione non possa essere inferiore in caso di accordi sul lavoro flessibile, semmai superiore. «Credo che ci sia un problema di terminologia da chiarire: lo smartworking è un accordo di lavoro finalizzato al miglioramento della competitività e del benessere che non incide sul contratto, il lavoro da remoto è una modalità che consiste nello svolgere la propria attività sempre da casa». In realtà anche l’0sservatorio ha indagato il tema del valore della flessibilità per i lavoratori italiani con l’analisi “Return to office” nella quale è stato analizzato il comportamento in caso di una ipotetica cancellazione dello smartworking. «Appena il 27% dei dipendenti accetterebbe di rientrare tutti i giorni in uffici, il 18% valuterebbe di lasciare l’azienda e un altro 9% se ne andrebbe subito. Tutti gli altri, ritenendosi danneggiati, chiederebbero in cambio un aumento di stipendio, circa il 20%, o una maggiore flessibilità oraria» sottolinea Corso. Se è vero che in media un lavoratore risparmia circa mille euro all’anno per gli spostamenti sono le aziende a fare economia soprattutto per quanto riguarda gli spazi, e a trarne un vantaggio in termini di produttività (10-15%). «Mi sembra che la questione sollevata dalla Bce sia malposta, non si può parlare di un taglio dello stipendio “accettabile”, ipotesi che in Italia non è percorribile, semmai di cosa offrire in cambio. Il problema per le imprese poi è quello dell’attrattività: quelle che non offrono la possibilità di lavorare in modalità ibrida non riescono ad attrarre talenti e a trattenerli».
Lo smartworking insomma è entrato nel dna degli italiani. I dati relativi al 2025, che verranno resi noti a fine ottobre, segnalano un ulteriore aumento degli smartworkers che si attestano tra i 3,6 e i 3,7 milioni (circa 100mila in più rispetto all’anno scorso) con una polarizzazione tra grandi aziende che spingono sulla flessibilità, mentre pmi e pubblica amministrazione stanno facendo passi indietro. «Lo smartworking non può essere una concessione da monetizzare. In questo contesto, ridurre lo stipendio rischia di snaturarne il significato e di minare la motivazione» sottolinea Elena Panzera, presidente di Aidp (Associazione italiana direttori del personale) Lombardia. La società di recruiting Hays l’anno scorso ha quantificato, con un’indagine realizzata su un campione di 2100 persone, in un 30% la richiesta di aumento di stipendio in caso di abolizione improvvisa dello smartworking. «I dati della Bce evidenziano una resistenza significativa da parte dei lavoratori europei ad accettare una riduzione salariale in cambio del lavoro da remoto. Il dato è coerente con quanto emerso dalla nostra indagine: il lavoro ibrido è ormai considerato un benefit consolidato, non più un privilegio da negoziare» spiega Alessio Campi, People & Culture Director di Hays Italia. «Viene percepito come parte integrante di un nuovo equilibrio tra vita professionale e personale, e non come un vantaggio da “pagare” con una riduzione dello stipendio» aggiunge Campi. Il 42% dei lavoratori in base all’ultima analisi sui salari di Hays considera lo smartworking un fattore decisivo nella scelta di un nuovo impiego, il 53% lo preferisce ad altri benefit tradizionali come l’assicurazione sanitaria o l’auto aziendale.